Ritorno a Kobane, dove c’era l’isis si attende la furia turca
I curdi si ritirano, entrano le truppe di Assad. Erdogan aspetta
La città è silenziosa, vuota, come addormentata di fronte ai nostri occhi. Resta soprattutto il simbolo della resilienza curda contro Isis. Ma, come tutti i luoghi pregni di memorie pesanti, quel passato col trascorrere del tempo si fa sempre più controverso, ognuno lo legge a modo suo. «Oltre 1.500 nostri giovani combattenti sono morti tra quelle macerie. Pochi intendono davvero tornare alle loro case», confessano unanimi i vecchi abitanti sfollati nella vicinissima cittadina turca di Suruç. Erdogan la detesta, ora vorrebbe cancellarla, come del resto distruggerebbe tutto ciò che ha che fare con l’identità curda. Tanti nel mondo occidentale la celebrano invece quasi fosse sacra, senza però sapere bene che ne sia stato dei suoi palazzi abbattuti, le strade vuote, il mercato semichiuso, le piazze devastate dalle cannonate, il fango d’inverno, la polvere d’estate sulla strade ancora non asfaltate.
Tra frutteti e campi
Kobane, odiata, amata, dimenticata. Vi ricordate le canzoni dai ritmi marziali e le note gutturali del popolo «il cui unico autentico alleato sono le montagne», che inneggiavano quanto fosse «dolce morire per Kobane»? Ci siamo arrivati ieri mattina accompagnati dalla notizia per cui i russi starebbero dispiegando le loro unità speciali nelle periferie. Un viaggio complicato, fatto di gincane nella campagna per evitare i posti di blocco dell’esercito turco. L’unico modo per arrivare alla zona della frontiera nei pressi dell’area urbana senza essere cacciati indietro o fermati è seguire i trattori agricoli tra frutteti e campi coltivati. Intanto i curdi si trincerano, protetti alle spalle da alcuni contingenti di soldati regolari siriani: i nemici di ieri appena diventati alleati per necessità. In mattinata si diceva che fossero ancora fuori città. Più tardi l’osservatorio Siriano per i Diritti Umani riportava però la loro presenza in centro. Mentre le unità turche, posizionate dietro a quattro alture disposte quasi parallele lungo il muro, i campi minati e i fili spinati dalla loro parte della frontiera, sono pronte all’attacco. Tengono i carri armati chiusi in un paio di caserme costruite di recente. Stesso luogo, stessi campi color fango, spogli come allora dopo i raccolti dell’estate. I silos di cemento grigio e le torri alte per le cisterne dell’acqua sono ancora ben visibili come cinque anni fa, quando fecero capolino lugubri e minacciose le bandiere nere delle brigate del Califfato ubriache delle recenti vittorie e convinte
Cambiavalute e spie
che battere i curdi intrappolati a Kobane sarebbe stata poco più che una passeggiata. Furono poi gli oltre 700 raid americani a salvare i curdi. La battaglia di Kobane avrebbe marcato l’inizio della fine per la dimensione territoriale del Califfato. Entro il gennaio 2015 oltre 10.000 jihadisti persero la vita sotto le bombe ad alta precisione tirate da droni e caccia Usa sui 100 chilometri di strada tra Raqqa e Kobane.
Oggi Isis non è sul terreno in forze, almeno per ora. Gli americani se ne sono andati. Quattro giorni fa i proiettili delle artiglierie turche li hanno spinti ad evacuare la loro base sul confine. Anche se i curdi sfollati a Siruç dicono che, in verità, alcune teste di cuoio Usa ogni tanto riappaiono a Kobane. Loro comunque non intendono andare a verificare. «Sono pochi i curdi siriani che accetteranno di venire chiusi nella cosiddetta zona sicura ideata da Erdogan per ricacciare in Siria noi profughi», spiega un gruppetto. I motivi? «I siriani sunniti scappati in Turchia sono stati radicalizzati dalla repressione di Bashar Assad. Oggi tra loro serpeggiano l’idea per cui i curdi vanno scacciati o massacrati», replicano. Quasi nessuno è disposto a rivelare la propria identità. «Il regime di Erdogan si fa sempre più dittatoriale. Possono estradarci in Siria anche solo per una frase non gradita ai giornalisti. Qui ci sono spie a ogni angolo», aggiungono. Per contro sono anche abbastanza certi che Erdogan cerchi di evitare violenze contro la città. «Il suo esercito non intende attirare l’attenzione su Kobane. È troppo conosciuta nel mondo, preferiscono non se ne parli», spiegano. Confermano che la città è vuota: di 80.000 residenti nel centro, molti sarebbero scappati all’estero sin dal periodo delle rivolte contro il regime nell’estate del 2011. Chi resta ha scelto di vivere nei villaggi limitrofi. E attende. Dice Mahmud Aziz cambia valuta 36enne: «La lira turca è in caduta libera. Chi può compra oro e dollari, non spreca denaro per ricostruire una casa che potrebbe venire spazzata via alla prossima crisi».
Oltre le macerie Il presidente turco vorrebbe cancellare tutto ciò che ha a che fare con l’identità curda