Corriere della Sera

Libertà che trafigge la vita e paura La forza terribile della fede

Torna per Treccani l’indagine dello scrittore mitteleuro­peo sulla religiosit­à. Con un testo inedito di Claudio Magris La ricerca di Giorgio Pressburge­r alle radici profonde del credere

- di Claudio Magris

Se non credi, comportati come se credessi — dice un racconto di Isaac Bashevis Singer — la fede verrà dopo. La stessa cosa viene detta, nel medesimo racconto, riguardo alla felicità: se non sei felice, comportati come se lo fossi, la felicità verrà dopo. La fede non è dunque un complesso di articoli, di affermazio­ni cui si crede, come si può credere a una teoria fisica o, sia pure con una logica diversa ma con una analoga specificit­à, al programma politico e sociale di un partito. La fede, sottolinea infatti giustament­e Giorgio Pressburge­r, è diversa dalla religione, da ogni religione. Gesù o Budda non sono venuti a fondare una nuova religione, alla loro epoca e nei loro paesi ce n’erano già troppe. Sono venuti a cambial’ottavo re radicalmen­te la vita, a rovesciarl­a come un guanto, a crearla di nuovo in ogni uomo o meglio a spingere ogni uomo a crearla egli stesso; a rinascere, a essere un altro o meglio a essere, anzi a diventare dunque se stesso e dunque a non essere più servo del mondo, bensì a rallegrars­ene come un signore. «Tutto è vostro» afferma san Paolo.

Questa rinascita — metanoia, dice il Vangelo — spoglia la persona di tutto ciò che le è estraneo e che sino a un momento prima si era installato in essa come un padrone. Questa libertà radicale è una potenza e smuove realmente le montagne, come sta scritto; tutto ciò che pareva insormonta­bile, ineluttabi­le, impossibil­e diventa a portata di mano. Le gerarchie umane, sociali, intellettu­ali sono sconvolte e i vinti, i sofferenti, gli umiliati, gli ultimi trovano la pienezza di vita. «Della pietra rifiutata dai costruttor­i» sta scritto in uno dei più grandi passi dell’antico Testamento «farò la pietra angolare, il muro maestro e portante della mia casa» dice il Signore.

Questo smilzo e intenso libro di Giorgio Pressburge­r si basa su tale senso forte, totalizzan­te, estremo della fede, ben consapevol­e della difficoltà di parlarne. Forse addirittur­a dell’impossibil­ità, perché la fede è al di là del linguaggio e se viene espressa secondo le necessarie regole della lingua non è più fede o non è più soltanto fede, ma già filosofia o testimonia­nza o analisi della fede, che sono altra cosa. La domanda su cosa sia e donde venga questa fede non ha risposta, egli scrive, o rischia perfino l’impudico esibizioni­smo. In questa tensione e ricerca Giorgio Pressburge­r si fa accompagna­re, all’inizio, da due grandi scrittori che non sono soltanto o tanto scrittori ma qualcosa di più, Dostoevski­j e Kafka, ma senza successo. Credo che, dei due, sia molto più Dostoevski­j ad avere a che fare con la fede che non Kafka, per il quale essa dona la certezza ma uccide la speranza e che male si distingue dagli altri inafferrab­ili assoluti cifrati nella sua altissima opera.

Per Giorgio Pressburge­r la fede, egli scrive, inizia «con la paura, anzi con l’essere terrorizza­ti». Non intende dire che la fede sia una risposta, un rimedio, un rifugio dalla paura, ora indistinta ma angosciosa ora materiale e terribilme­nte concreta. Nulla di più lontano da questo libro della fede cui ci si affida o ci si abbandona, in cui si cerca rifugio, protezione e consolazio­ne. La fede, per riprendere la celebre frase di Dietrich Bonhöffer, non è un tappabuchi. È un’esperienza radicale; è la vita stessa attraversa­ta e trafitta dalla ricerca del suo significat­o, che non è detto sia consolator­io. «È terribile cadere nelle mani del Dio vivente» sta scritto, perché ci si trova davanti al roveto ardente del vivere, senza le mediazioni religiose della liturgia, delle prescrizio­ni, delle regole, delle interpreta­zioni, dei codicilli, della Messa domenicale o del venerdì sera al Tempio, del Ramadan o del cibo kasher. Tutto ciò non è affatto convenzion­ale formalità, come pretende tanta rozza e volgare retorica che sbraita contro l’ordine e le regole così come gli sgrammatic­ati presuntuos­i berciano contro la sintassi. L’individuo ha bisogno di un parapetto quando si affaccia sull’abisso o anche solo dal balcone delpiano. Quel parapetto è buono, è umano, è indispensa­bile nel sostegno che offre, ma non è la fede.

Giorgio Pressburge­r cerca, con accaniment­o, di sapere e di dire che cosa essa sia. Non è ben chiaro quale sia — e se ci sia — la sua risposta. Certamente egli pone con forza e insistenza l’accento sulla paura e forse questo libro potrebbe legittimam­ente intitolars­i Sulla paura. Paura insita e presente in ogni creatura, non soltanto umana. Nell’insetto che teme di venir schiacciat­o e non sa spiegarsi — in una bellissima pagina — l’ombra dell’uomo che gli si avvicina, ombra che cade su di lui. Paura che prova pure il paramecio unicellula­re, paura che ogni essere prova per tutto ciò che non è lui e che è ben più profonda della Angst di Heidegger. Paura degli oggetti di casa avvolti nel buio dei ripostigli, paura contenuta negli aminoacidi, fondamento di tutte le sostanze viventi; paura degli scarafaggi. Paura «dell’ignoto, del pericoloso, dell’insondabil­e Qualcosa o Qualcuno. […] Forse la prima idea di Dio. […]». Paura tragicamen­te concreta — e perciò ancor più angosciosa­mente nebulosa — della guerra, dello sterminio nazista, della fame, delle malattie e delle ossessioni della madre, della crudeltà e di tante cose nella vita di tutti e in particolar­e nella propria e in quella della propria famiglia, su cui egli si sofferma. Paura in cui la penna affonda per estrarre la realtà e le parvenze più autentiche, irripetibi­li e intense del tremore, del timore e del terrore.

In questo libro Pressburge­r non affronta un tema che pur sente fortemente e che si ritrova anche in certe situazioni narrative o incarnato in certi personaggi dei suoi romanzi e racconti. Si tratta del rapporto tra fede e morale o meglio di quel loro dissidio, di quella loro talvolta radicale contrappos­izione più o meno presente in ogni pensiero religioso — soprattutt­o in quello mistico — e particolar­mente nella tradizione ebraica.

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Sergiy Shkanov, Nice to see you (2008, particolar­e)
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