Un’immensa Huppert resuscita Maria Stuarda
Nelle conversazioni quotidiane ma anche nella pubblicistica corrente ci si «innamora perdutamente». Mai qualcuno s’innamora e basta. Mai s’innamora in modo normale. Vero è che normale è parola difficile da accettare: da dire o scrivere. Che significa normale? Bisognerebbe chiarire di volta in volta in che senso, ognuno a suo modo. Ma «innamorarsi perdutamente» è una di quelle espressioni che nel suo mirabile Potere alle parole (Einaudi), una linguista del calibro di Vera Gheno annoterebbe come svuotata di senso per eccesso d’uso: alle parole viene tolto il loro potere.
Ma ecco un caso in cui questa espressione così corriva sarebbe (è) del tutto realistica. In esso — durante Mary Said what She Said dello sconosciuto scrittore americano Darryl Pinckney e in scena alla Pergola di Firenze per la regia di Bob Wilson — in questo caso ci imbattiamo davvero. O potremmo imbatterci ma ciò, precisamente, non accade. Pinckney ci gira intorno, poi se ne allontana. Nell’evocare il tragico personaggio della regina di Scozia è come se gli premesse proporre una sua immagine più importante che finisce con l’essere vaga.
Maria Stuarda che sa tutto ciò che dice, e tuttavia nulla sa, è sperduta nel buio della mente: di fronte alla morte ricorda tutta la sua vita in modo ripetitivo, ossessivo, ma fluttuante, a scatti, per lampi ed episodi e figure che non si collegano tra loro. Potremmo dire che la Maria Stuarda di Pinckney è una «diversa», questo il motivo della sua resurrezione. Risorta perché «diversa». L’autore voleva mostrare il contrario che una normalità sia pure regale, ossia una alienità. La mia per altro non è che un’ipotesi.
Ma certo è che Pinckney non ci parla del fatto cruciale della sua vita, non ci dice che Maria di Scozia è come avesse generato la Gertrude dell’amleto e non è che un ricordo di Clitennestra. Non ci dice che fu complice dell’assassinio del suo secondo marito perché finalmente al suo secondo amore aveva conosciuto l’amore (il secondo, nota Stefan Zweig, è il vero amore), e volle a tutti i costi sposare Bothwell. Di Bothwell, che di lei non fu mai innamorato, Maria era «innamorata perdutamente». Per quanto riguarda lo spettacolo una simpatica recensione me la spedì Piero Gelli, l’autore del Dizionario dell’opera.
Il suo sms diceva: «Elegante, algido, suggestivo, il solito Bob Wilson che sappiamo… noiosissimo. Lei, Isabelle Huppert, una macchina: parla, cammina, gestualizza, come avesse la còrea. Il fondo bianco luminoso non fa quasi mai leggere le didascalie italiane: lei mitraglia parole e quindi mi sembra di aver visto uno spettacolo in ungherese. Il pubblico in delirio». È un giudizio perfido-ironico, nel suo stile. La Huppert sì, cammina avanti e indietro in modo meccanico o si muove a scatti, perché così deve, ma non si limita a mitragliare le parole, le mormora, le piange, le ripete in modo sempre diverso. La Huppert è una grande attrice e lo spettacolo è tutto suo.