Corriere della Sera

L’impegno civile di Meryl contro i signori della truffa

- di Maurizio Porro

Bertolt Brecht avrebbe gradito Panama Papers di Steven Soderbergh, una specie di cabaret ad personam contro le deviazioni del capitalism­o intese come società off shore, evasioni fiscali, corruzioni, inganni. È sempre la strepitosa Meryl Streep (in The Post l’editrice che pubblicava i Panama Papers), ad essere coinvolta nel caso, in doppio ruolo: la vedova che perde il marito nel naufragio in un tour assicurato in modo da non pagare, affiliato a società di riciclaggi­o; e una segretaria.

I due santoni del raggiro, gli eleganti Jurgen Mossack e Ramon Fonseca (ieri hanno annunciato di voler denunciare per diffamazio­ne Netflix, che avrà sulla piattaform­a il film) impersonat­i da Gary Oldman e Antonio Banderas, raccontano la logica bacata Volti

Meryl Streep (70 anni) e Jeffrey Wright (53) in «Panama Papers» diretto da Steven Soderbergh, Oscar per «Traffic» nel 2001 del Dio Dollaro, partendo dal baratto ed alcuni casi di truffe lungo il sorpasso di 214.000 società denunciate dalla bomba editoriale esplosa nella finanza mondiale.

Meryl, la cui bravura è pari da sempre all’impegno civile nel denunciare il marciume che avanza, accusa un mondo in cui l’illegalità è legge e chi evade salva la pelle e vien premiato proprio come Mackie Messer nel testo brechtiano. Il film espone in episodi, alcuni casi con spirito inseguendo la vena accusatori­a di Soderbergh (Erin Brockovich, Traffic). Senza alzare la voce, è già tutto tragico, il regista svela con cinica grazia il velo della meccanica dell’economia di mercato e le scorciatoi­e per evadere tasse, il vizio mondiali del secolo.

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