QUATTRO PUNTI, TROPPI APPLAUSI
Si narra che il destino d’un cantante, un balletto o un melodramma al debutto all’opera di Parigi dipendesse da Auguste Levasseur, il «padrone» dei claqueurs: una sola fischiata ed era il tracollo, uno scoppio d’applausi il trionfo. Alla Leopolda, ieri, sarebbe stato superfluo. Il «Matteo show», infatti, è andato come nelle migliori speranze renziane e le peggiori aspettative «nemiche».
Rapporto diretto: di qua lui, di là il popolo. Meglio: il «suo» popolo. Pronto, a dispetto delle batoste, a perdonargli tutto. «Ne abbiamo combinate di tutti i colori!» Applausi. «Abbiamo commesso degli errori…» Applausi. «Ma mai errori dettati dal qualunquismo o dalla superficialità!» Applausi. «Nella logica dell’umiltà che non sempre ho…». Applausi.
Un’apoteosi. O quasi. Prova provata che, al di là delle ragioni e dei torti, delle avvisaglie e delle smentite, il PDR e cioè il Partito di Renzi di cui tanto ha scritto Ilvo Diamanti, esisteva davvero prima ancora di nascere e di farsi convocare oggi nella Betlemme leopoldiana. Un popolo con tanti ragazzi giovani, tante donne, un po’ di riciclati già visti nei decenni è un po’ qua e un po’ là… Persone decise a insistere sulla scommessa travolta dal referendum del 4 dicembre 2016.
Decisa a costo di chiudere un occhio sull’arrivo di qualche ospite inimmaginabile. Come l’ex agente del mondo dello spettacolo Lele Mora, legatissimo per anni a persone non troppo stimate da queste parti come Fabrizio Corona, Silvio Berlusconi, Emilio Fede nonché coinvolto in varie inchieste giudiziarie e condannato a quasi cinque anni di galera per bancarotta. «Che ci fa qui?», gli chiedono mentre entra nel fortino renziano: «Sono venuto a salutare Matteo. Un amico. Lo conosco da tanti anni. Se mi piace il nuovo partito? Speriamo che faccia cose belle». Ma non aveva simpatie fasciste? «No: mussoliniane. Sempre stato mussoliniano e rimarrò mussoliniano». Ma Renzi sarà contento di vederla qui oggi? «Se mi ha invitato…». C’è un tratto comune tra Berlusconi e Renzi? «Penso di sì. Silvio diceva che era il suo nuovo galoppino. È il suo erede». Imbarazzato, qualcuno del corbezzolo fa sapere: mai invitato. Curioso: mentre veniva condotto all’«ingresso vip» il mai invitato aveva al collo il pass.
Ma uffa, perché sottolineare queste contraddizioni in una giornata tanto luminosa? Avanti con le parole d’ordine! «Questo è il luogo dove tutto è possibile, dove i sogni si realizzano, dove l’amicizia è schietta!». «Proporre idee non è lanciare ultimatum. È far politica. Se io propongo di non tartassare le partite Iva non sto lanciando un ultimatum. Ma chiedo: ma che ha fatto di male la classe media per essere tartassata?». «Noi siamo quelli che hanno alluvionato la politica italiana di progetti, di proposte, di idee!». Poi le sassate contro i critici della svolta agostana: «A chi ci ha rimproverato dicendo “ah, bisognava andare a votare in nome della coerenza” rispondo: chiamano coerenza quello che io chiamo masochismo». «Non c’era scelta. Avremmo consegnato le riforme e il Quirinale nelle mani di chi si allea con Casapound!».
E via così. Un torrente in piena. Che martella Matteo Salvini («lui sì pregiudicato») perché non ha avuto il fegato di parlare delle grane giudiziarie dei Renzi a Porta a porta: «Non è Don Rodrigo, è Don Abbondio». Spara a zero sui giustizialisti. Spende parole dolci per «gli amici Zingaretti e Franceschini». Si schiera dalla parte dei genitori affidatari di Bibbiano. Sbotta contro gli ex oppositori: «Per sette anni ho dovuto resistere agli attacchi interni!». E via così. Una carezza e un pugno, un pugno e una carezza. In un diluvio di alleluia a prescindere dal tema.
Su tutto, però, resteranno di questa giornata quattro punti. La rivendicazione esplicita dell’obiettivo finale: «Vogliamo fare quello che ha fatto Emmanuel Macron». La meta elettorale: «La doppia cifra è il minimo sindacale». L’omaggio al tramonto di quello che per un quarto di secolo è stato il leader del centrodestra, Silvio Berlusconi: «Per quanto si possano avere opinioni diverse (anche su tante leggi) lui si riconosceva in una società europea liberale e riformista. Matteo Salvini no». E dunque che faranno i moderati? «Noi possiamo loro offrire una casa. La porta era aperta».
Non meno interessante, però, è un quarto punto. Una sorta di revisione dell’invito evangelico: «Lasciate che le donne vengano a me». Ricorda le parole di Claudia, la farmacista colpita dalla Sla intervenuta per spronare tutti a investire sulla ricerca e a chiedere «col sorriso» sul fine vita quel rispetto che spesso non c’è ma su cui «non può esserci una battaglia politicista». Parla del collegamento video da Kobane con la comandante curda Nessrin Abdalla: «Svegliati,
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Teresa Bellanova protagonista sul palco
E tutto il popolo della Leopolda si schiera con lei
Il discorso
I quattro punti affrontati dal leader di Italia viva e i troppi applausi
Europa!». Elogia Lucia Annibali, simbolo della lotta al femminicidio. Tuona che «Italia Viva è un partito femminista: noi aspettiamo con ansia una presidente del Consiglio donna, una presidente della Corte Costituzionale donna…». L’unica alla quale pare (pare) dedicare meno spazio ed entusiasmo d’un tempo, forse per la scivolata sul «Pd partito delle tasse», è Maria Elena Boschi. Alla quale, per scaldare la platea in vista del comizio finale, è stata preferita Teresa Bellanova.
Una specie di uragano. Irruenta. Determinata. Passionale. Pure troppo, quando accusa il Pd d’essere diviso «in bande armate». Non ha la laurea. Non ha i tacchi a spillo. E se ne infischia dei vestiti gialli, arancioni o blu elettrico. La gente della Leopolda è tutta con lei. Anche questo, chissà, è un cambio di stagione.