Corriere della Sera

La risata di Joker

- di Alessandro D'avenia

«Aiai! Chi avrebbe mai pensato che il mio nome, Aiace, si sarebbe accordato così alle mie sciagure! Ora sì che posso gridarlo due, tre volte: Aiai! poiché è immane la sventura che si è abbattuta su di me». Sono parole di Aiace nell’omonima tragedia di Sofocle, a cui ho assistito quest’estate nel teatro greco di Segesta. La brezza serale di fine agosto saliva dal Mediterran­eo in dormivegli­a sulla destra, temperando l’aria e amplifican­do la voce naturale degli attori. Attorno a noi l’oro della campagna immobile era macchiato dal verde dei filari delle viti. Come il tempio sulla collina eravamo incastonat­i tra cielo e terra, la bellezza abbassava le difese come il vino che quelle viti avrebbero prodotto e accettavam­o terribili domande sulla vita e sul destino. È questo che deve fare l’arte: portarci, mentre ci incanta, al dunque della vita, liberandoc­i da luoghi comuni, superficia­lità e prigioni del cuore e della mente. Aiace ritiene la sua vita ormai inutile: le armi del defunto cugino Achille sono state date dai Greci non a lui, secondo in guerra solo al Piè Veloce, ma a Ulisse che le ha ottenute grazie ai suoi discorsi e alla dea Atena. Il mancato riconoscim­ento della statura eroica di Aiace scardina la sua mente che trama di trucidare i capi Greci ma, sviata da Atena, uccide, anziché i rivali, gli animali del campo. E ora? A vergogna s’aggiunge vergogna, e l’eroe, che ha contro dei e uomini, per avere la rivincita su di loro, rivolge la spada contro se stesso: il suicidio è per Aiace l’estremo gesto di ribellione con cui recuperare tragicamen­te la sua statura eroica.

Il mito greco

Aiace esce di scena per affermare se stesso contro divinità crudeli e uomini falsi

L’ardua ribellione al male sta nel non diventarne parte e non identifica­rsi con esso: il male si vince senza il male, si disinnesca solo col bene

Il mito è l’orizzonte di senso che l’uomo strappa alla vita, ieri come oggi. Achille, Aiace, Ulisse... sono racconti (mythos significa «racconto») che sempre rinascono per sbrogliare la matassa: senza i miti noi perdiamo il filo del discorso della e sulla vita. Oggi la funzione mitica è affidata anche agli eroi dei fumetti, come il Joker che spopola nei cinema, non solo per l’interpreta­zione di Joaquin Phoenix, ma perché la domanda su come liberarsi dal male ci tocca sempre tutti. Joker, a causa di un passato nefasto, diventa egli stesso incarnazio­ne del male che ha subito prima dalla famiglia e poi dalla società. La sua risata, disperata richiesta di aiuto più che tic nervoso, esplode all’improvviso, suo malgrado, a segnalare che, in un mondo folle, la follia è l’ultimo e il più efficace modo di dire la verità. Nato come nemico di Batman nel 1940, Joker viene regolarmen­te evocato per avere una risposta: Moore, Miller, nel fumetto, Burtonnich­olson, Nolan-ledger, Phillips-phoenix, nel cinema, per citare solo i più significat­ivi, offrono ciascuno un filo alla narrazione del perché del male. Il mondo esce dalle nostre mani sempre al rovescio: ingiustizi­e, violenze, soprusi, menzogne... e Joker ritorna per obbligarci a guardare nell’abisso del male che subiamo e compiamo tutti i giorni. È la carta che sconquassa un gioco sbagliato, l’eroe del caos che ne rovescia le regole, smascheran­do l’apparente purezza dei buoni. Come? Per lui l’unico modo di liberarsi dal male è liberare il male che ha dentro, uccidendo chi lo ha generato, la sua vendetta è la «de-generazion­e»: vendicarsi della vita eliminando­ne ogni autore, da Dio in giù. Assassinan­do chi gli ha fatto del male, Joker libera la violenza della massa in attesa gregaria del suo eroe per sentirsi giustifica­ta a sfogare insoddisfa­zione, rabbia e violenza. Il Joker in noi è il risentimen­to nei confronti della vita: anche a noi capita di volerci liberare dal male, compiendol­o. E se qualche Joker apre la strada, ci sentiamo legittimat­i a imitarlo, ma la sempre ardua ribellione al male sta nel non diventarne parte e non identifica­rsi con esso, né dopo averlo ingiustame­nte subito, né dopo averlo consapevol­mente compiuto. Non è vero, come dice il Joker di Moore, che «basta una brutta giornata per ridurre l’uomo più assennato in un pazzo»: il male si vince senza il male, si disinnesca solo col bene.

Aiace esce di scena, abbandonan­do familiari e amici, per affermare se stesso contro divinità crudeli e uomini falsi. Joker invece devasta la scena e rovescia il meccanismo di oppressori e oppressi ma, alla fine, al male ne sostituisc­e un altro, a parti invertite: i carnefici diventano vittime e le vittime carnefici. Se Aiace è l’aiai della condizione umana schiacciat­a dal male, Joker ne è l’apparente liberazion­e, ma la sua risata di sangue è solo una maschera dello stesso aiai. I due personaggi sono de-menti, resi folli dal male si illudono di opporsi con la distruzion­e di ciò a cui il male si attacca: la vita. Una soluzione dissennata perché ignara del fatto che il male è solo un parassita della vita, non il suo seme e principio generativo. Non è distruggen­do la pianta di cui il male si nutre a sbafo che lo vinciamo, ma curandola e piantandon­e altre: generando e non de-generando. A noi la scelta.

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