VINICIO CAPOSSELA
ria: “Vinicio meglio di così non poteva venire. Peggio di così non poteva venire”».
Le prime esibizioni non riscossero grande successo...
«Dica pure fischi... nella Bassa padana mi capitava di suonare dappertutto, anche nelle osterie. Una volta andai a suonare insieme a un gruppetto in un circolo punk a Modena e un tizio, di cui ricordo solo gli anfibi che portava ai piedi, schifato dalla nostra esibizione, si alzò e, andandosene, esclamò: siete la morte».
Si è scoraggiato?
«Assolutamente no. Il rapporto con il pubblico è sempre rischioso. Il guaio è quando diventa condizionante e quindi, pur di compiacerlo, rinunci alle tue scelte per farne altre, cambi i tuoi programmi. Un artista deve intraprendere il suo cammino, tra fischi e applausi, accettando la fatica di farsi accettare per ottenere consenso. Non sono un elitario, tuttavia secondo me è peggio quando ci si adegua alle richieste del pubblico: il rischio, come canta Ivano Fossati, è di fermarsi ad ogni lampione. La stessa cosa avviene in politica».
Cioè?
«Non sono partitico, ma politico, ogni gesto che facciamo è politico. Il fatto di delegare, degradare la politica a una macchina del consenso, dove siamo tutti tirati per la giacchetta, è la maniera più limitata. Non si può ridurre la figura del politico a quello che si fa i selfie in piazza e non si può ridurre un cittadino a colui che mette una crocetta sulla scheda del voto. Ripenso alla figura di Enrico Berlinguer, che parlava da solo, davanti a milioni di persone ed era capace solo con le sue parole di porsi come un vero leader».
Altri tempi. La realtà attuale è un’altra.
«Purtroppo, ma il reale non coincide con il vero. La dittatura dell’attualità, che ci costringe a esprimere opinioni per esempio attraverso i social è ineludibile e insopportabile. Quello che mi preoccupa è l’abuso dell’immagine rispetto alla parola: le immagini che dilagano in rete, sono immagini che mettono in circolazione le pulsioni più basse e possono anche fare molto male alle persone. Ecco, io preferisco avere un rapporto mediato con la “bocca della verità” che è la rete, uno strumento meraviglioso che richiede un alto senso di responsabilità. E allora sopra a quelle immagini ci metto una tendina, così come facevano mia nonna o le mie zie in Irpinia che sul televisore ci mettevano la tenda, perché lo consideravano un intruso in casa: si sentivano osservate da quel catafalco che dominava in camera da pranzo». Chi è
● Vinicio Capossela (Hannover, 14 dicembre 1965), cantautore e scrittore, pur essendo nato in Germania da genitori originari dell’irpinia, è sempre vissuto in Emilia Romagna
● Il suo album d’esordio, «All’una e trentacinque circa» risale al 1990, con cui vinse la Targa Tenco. Segue «Modì», dedicato al pittore Amedeo Modigliani. L’album successivo, «Camera a sud», viene inserito nella colonna sonora de «L’ora di religione» di Bellocchio
● Tra i libri che ha pubblicato, «Non si muore tutte le mattine» e «Il paese dei coppoloni»
Il suo ultimo album si intitola Ballate per uomini e bestie. Chi sono gli uomini, e chi le bestie?
«Appartengono entrambi allo stesso genere umano. La bestia, infatti, non è solo l’animale selvaggio, quello destinato all’arena, bensì la persona che si comporta male, aggredendo il prossimo nella lotta per la sopravvivenza, facendo prevalere la legge del più forte. Bestia è un termine ampio, comprende anche il maleficio, non a caso è pseudonimo del diavolo».
Insomma, qual è il confine tra gli uomini e le bestie?
«Ciò che ci rende uomini è la cultura, il rispetto delle regole, il sapere stabilire dei limiti per stare insieme in una convivenza pacifica. Il confine, ovvero la differenza, è tra civiltà e barbarie».
Chi è Il povero cristo, che dà brano dell’album?
«Dica pure».
il titolo a un
«Non sono credente, non sono sorretto dalla Fede, ma sono sensibile al sacro, alla ritualità e leggo con attenzione le Scritture. La religione ci offre delle chiavi di comprensione più dell’uomo che di Dio. D’altronde, Dio stesso si è fatto uomo».
Posso farle una domanda impertinente?
Lei in palcoscenico è sempre provvisto di cappello. È una questione che riguarda il costume di scena oppure si tratta di pura e semplice civetteria, per nascondere la calvizie?
«È davvero un po’ impertinente questa domanda, che nessuno mi ha mai fatto... — ride —. Ora le spiego: non è civetteria, è una forma di travestimento, il più pratico che esiste da portare in giro nelle tournée. Di cappelli ne ho tanti, di varie fogge e diversi colori, ma sono facili da trasportare, perché occupano poco spazio, tranne alcuni che sono più ingombranti, insomma... un teatrino portabile! Però la loro funzione è soprattutto un’altra: con i cappelli si creano dei personaggi, si trasmettono delle suggestioni, rappresentano una vestizione delle mie canzoni... In altri termini, sono degli ottimi compagni di lavoro che accompagnano certe stagioni della vita. Dunque, non sono coperchi per la calvizie».
Nato ad Hannover, cresciuto a Scandiano, poi in giro per il mondo. Si sente un apolide?
«Non mi sento fuori dalla polis, dalla comunità. Credo di essere apolide come qualunque uomo contemporaneo. Semmai ho il vantaggio di essere pluripolide: di comunità ne ho parecchie».