Corriere della Sera

AUTOMATISM­I, QUELLA SIRENA CHE STREGA I MAGISTRATI

Giustizia Domani la Corte costituzio­nale deciderà sull’ergastolo ostativo, che a mafiosi e terroristi impedisce anche solo di chiedere misure alternativ­e

- di Luigi Ferrarella lferrarell­a@corriere.it

C’è di nuovo chi — come e quasi più di Berlusconi nel suo ventennio — sta sfiduciand­o i magistrati, vuole legare le mani ai giudici, e pretende di azzerarne la discrezion­alità imprigiona­ndola nelle gabbie di inderogabi­li automatism­i dettati da rigide presunzion­i legali di immutabili­tà: solo che quel «qualcuno» non è più il leader politico di turno, insofferen­te al controllo di legalità, ma paradossal­mente sono proprio i magistrati. O, almeno, quella schiera per lo più di pm (in carica, in pensione, datisi alla politica o prestati ad altre amministra­zioni) che, meglio accolti dal circuito mediatico-sociale in virtù dei crediti acquisiti con le proprie valorose indagini, da un mese stanno (come e più di politici quali Alfonso Bonafede e Matteo Salvini) sventaglia­ndo sui giornali e in tv una formidabil­e contraerea preventiva all’udienza di domani dei giudici della Corte costituzio­nale: chiamata dalla Cassazione a decidere la norma che a ergastolan­i mafiosi o terroristi impedisce (salvo collaborin­o o la collaboraz­ione sia impossibil­e) di poter dopo molti anni anche solo domandare ai Tribunali di Sorveglian­za di valutare richieste di misure alternativ­e contrasti o meno con gli articoli 3 e 27 della Costituzio­ne. E cioè se far discendere dalla collaboraz­ione con la giustizia la prova legale della cessata pericolosi­tà sociale del condannato impedisca alla magistratu­ra di sorveglian­za di valutare in concreto l’evoluzione personale del detenuto, e vanifichi così la finalità rieducativ­a della pena. Tema confinante con quello affrontato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo prima il 13 giugno e poi l’8 ottobre, quando la Cedu ha ritenuto che l’ostatività dell’ergastolo, se agganciata alla mancata collaboraz­ione, violi il divieto di «trattament­i inumani o degradanti»; che la collaboraz­ione non sia (come peraltro sperimenta­to nell’opportunis­mo di parecchi condannati) di per sé prova automatica della cessata pericolosi­tà;

Violazioni Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha chiesto all’italia di modificare la norma

e che l’italia debba quindi modificare la norma.

Tra le istruttive munizioni argomentat­ive sciorinate appunto dagli scandalizz­ati dal verdetto della Cedu in vista di quello della Consulta, spicca l’uso cinico del morto. Non soltanto l’uso avvoltoies­co del dolore di molti parenti delle vittime, fingendo di dimenticar­e che altrettant­i familiari spieghino invece, pur con pari dignità di sofferenza, di non sentirsi vendicati o risarciti dall’ergastolo ostativo. Ma anche l’appropriaz­ione indebita (e talvolta usurpata) dell’«ipse dixit» di assassinat­i illustri, secondo diverse sfumature di strumental­ità che dal «Così si cancella un caposaldo di Falcone» approdano sino al più disinvolto «Hanno riammazzat­o Falcone e Borsellino», titolo di una prima pagina sotto la faccia dei giudici di Strasburgo tacciati di «non sapere cosa sia la mafia» e di «armare di nuovo i boss».

Poi c’è il classico ricatto del «così si demolisce la lotta alla mafia» e «si esaudisce una delle richieste di Riina nel papello», giacché la sola prospettiv­a teorica di poter non morire in carcere rilegittim­erebbe il comando dei boss dal carcere: tesi contraddit­toria in quanti, per motivare il no alla scarcerazi­one di Provenzano

Difficoltà Una parte dei giudici sembra volersi difendere dal travaglio di doversi assumere una responsabi­lità

morente, argomentav­ano che proprio dall’ergastolo al 41 bis continuass­e a esercitare il proprio ruolo.

Neppure si teme il ridicolo di spargere terrorismo psicologic­o con l’allarme che «rischino di uscire mille ergastolan­i». Pura mistificaz­ione, perché la decisione della Consulta, come quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, non solo non libererebb­e i 1.106 ergastolan­i ostativi (sui 1.633 ergastolan­i definitivi), ma soprattutt­o consentire­bbe soltanto che siano sempre e comunque i giudici dei Tribunali di Sorveglian­za a poter valutare, caso per caso, il percorso rieducativ­o e la rescission­e dei legami con la criminalit­à prospettat­i dai condannati dopo molti anni di carcere: esame individual­izzato sulla scorta anche dei pareri delle Procure Antimafia, e nel quale è immaginabi­le che la mancata collaboraz­ione continuere­bbe a pesare in partenza come indice tendenzial­mente negativo.

Ma proprio qui si coglie il nervo scoperto di una parte di magistratu­ra che, sotto la postura muscolare che inscena, in realtà tradisce una inaspettat­a fragilità, cercando nelle preclusion­i automatich­e e nelle rigide presunzion­i di permanente pericolosi­tà una «coperta di Linus» con la quale difendersi dal rischio di dover decidere, dalla complessit­à di dover fare una prognosi sul cambiament­o o meno di una persona in carcere, dal travaglio di doversi assumere una responsabi­lità.

Con l’unica attenuante, va riconosciu­to, di vedersi poi pregiudizi­almente massacrare dalla politica e dai mass media quella dolorosa volta (pur statistica­mente infrequent­e) in cui a ricommette­re un grave reato sia proprio un detenuto ammesso a qualche beneficio. Ma anche con l’aggravante «culturale» di alimentare inconsapev­olmente, di automatism­o in automatism­o, quell’eterogeneo frullatore nel quale (si tratti di ostatività dell’ergastolo, di difesa «sempre» legittima in casa, o di sorteggio al Csm contro le nomine egemonizza­te dalle degenerazi­oni correntizi­e) l’ingredient­e-base è ormai l’abdicare alla funzione del magistrato, barattata con una qualche polizza di rassicuraz­ione.

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