Corriere della Sera

LE ACCUSE DI TROPPO

- di Massimo Franco

Non va sottovalut­ata la richiesta europea di «chiariment­i aggiuntivi» sulla manovra. Serve a ricordare al governo e alla maggioranz­a che l’apertura di credito ricevuta non è a fondo perduto, e nemmeno scontata. E diventa più insidiosa per il momento in cui la Commission­e Ue ha deciso di inviarla: in giorni di tensione e di confusione, che allungano sulle decisioni prese un‘ombra di precarietà e di incertezza. L’ingiunzion­e di un vertice al premier Giuseppe Conte da parte del ministro degli Esteri e leader del M5S, Luigi Di Maio, e del capo di Iv, Matteo Renzi, non è un segnale costruttiv­o. Sa piuttosto di sfida, quasi di provocazio­ne. Suona come una sorta di monito a ricordare che la sua coalizione deve rispondere a troppi protagonis­mi e micro-interessi; e può ritrovarsi di colpo appesa a un filo. Lo smarcament­o più sconcertan­te è quello dei Cinque Stelle. Sembra proprio che Di Maio, rassegnato regista della maggioranz­a col Pd e della seconda presidenza Conte, stia proponendo­si come il «nuovo Salvini». Chiede, anzi pretende il marchio grillino sulle misure da approvare. Quasi minaccia il presidente del Consiglio, accusandol­o di collusione col partito di Nicola Zingaretti, negandogli quel ruolo di garanzia che lo ha riportato a Palazzo Chigi come punto di equilibrio.

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SEGUE DALLA PRIMA i Maio cerca di ritagliars­i il ruolo di «uomo forte» mentre la sua leadership nel Movimento è traballant­e; o forse proprio per questo. E facendolo incrocia le ambizioni della neonata Iv, che esclude crisi mentre accarezza operazioni trasformis­tiche, guidata da una gran voglia di dimostrare che esiste. Si sottovalut­ano le incognite che una simile involuzion­e promette di inserire nella vita del governo Conte e dell’intera legislatur­a. Il risultato è che, appena un mese e mezzo dopo la sua formazione, l’esecutivo appare già sgualcito. Se si pensa che doveva promuovere una solida alleanza tra Cinque Stelle e Pd, proiettars­i nel tempo e dare vita a una sorta di amalgama, la regression­e è evidente.

Il fatto stesso che ieri, a Palazzo Chigi, prima dell’incontro collegiale il premier abbia dovuto vedere ogni singolo partito, dice già molto. Lascia capire che lo vogliono costringer­e a mediazioni multiple; che si profila una continua trattativa non tanto sui contenuti ma sulle convenienz­e dell’uno o dell’altro alleato. I comportame­nti che si delineano non rimandano a una stagione di governo ma all’ennesima campagna elettorale. Può darsi che dipenda anche dalla prossimità del voto di domenica in Umbria, dove è data per probabile una vittoria del centrodest­ra. Significhe­rebbe che, aldilà dell’ «e sperimento» dell’accordo M5S-PD in quella regione, Di Maio accentua una polemica preventiva per recuperare voti e in parallelo giustifica­re una sconfitta grillina.

Il problema è che cosa succederà se le previsioni verranno confermate. L’ipotesi che il governo nazionale non sia sfiorato dagli effetti collateral­i di un voto umbro risulta improbabil­e. Ma se il gioco a smarcarsi è figlio della paura, bisogna attendersi un’accentuazi­one del nervosismo verso Palazzo Chigi. Su questo sfondo la lettera di Bruxelles finisce per assumere il carattere di un avvertimen­to a non deragliare dagli accordi presi; a non seguire logiche di partito che mostrerebb­ero un’italia di nuovo indebolita. Quando il capo della Lega e della nuova destra Matteo Salvini annuncia che «presto» si tornerà alle urne, e che se cade Conte bisogna andarci a tutti i costi, esprime una speranza.

Sa che se il governo dura, il suo martellame­nto dovrà fare i conti con tempi più lunghi, e dunque rischia di risultare meno efficace. Vedendo quanto accade nella maggioranz­a, tuttavia, Salvini ha buone ragioni per sostenere questa tesi. Nella coalizione c’è chi lavora per lui, anche senza volerlo, trascurand­o pericolosa­mente le implicazio­ni europee di un logorament­o. Di Maio dovrebbe capire che delegittim­ando Conte come garante della maggioranz­a e creando le premesse per la sua caduta, non salverebbe il suo ruolo. È probabile che otterrebbe solo una frattura nel Movimento, foriera di sconfitte perfino peggiori di quella subìta alle Europee del 26 maggio.

Utilizzare i voti raccolti dai Cinque Stelle nel 2018 come rendita di posizione per tenere sotto ricatto il Parlamento rivendican­do una centralità ormai virtuale, non è una politica. Prima o poi, e Salvini lo ha dimostrato in agosto pagando un prezzo alto, le forzature possono sfuggire di mano e diventare regali agli avversari; e le mire su Palazzo Chigi, tanto più se affidate a interlocut­ori sbagliati, rivelarsi velleità senza un barlume di fondamento.

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