Corriere della Sera

La traversata di Tawfik

Paolo Di Stefano segue la storia vera di un diciassett­enne dall’egitto all’italia

- di Giulia Ziino

Quando lascia casa sua per imbarcarsi verso chissà dove Tawfik ha diciassett­e anni, cento euro cuciti nei pantaloni, un paio di occhiali che gli ha regalato suo zio «per vedere meglio il futuro», un sacchetto di plastica con un cambio di biancheria e due numeri di telefono: di uno zio che abita a Milano e di un amico del padre che invece sta a Bergamo. Ma Tawfik non sa cosa sia Milano, né Bergamo, né l’italia. O l’europa. O la vita.

Imparerà tutto: a cavarsela da solo, a parlare italiano, a fare le pennette al pesto. Anche ad amare giocando, lui che arriva da un posto in cui le ragazze sono soltanto sguardi rubati dietro ai veli nel tragitto da casa a scuola, quando l’autista del furgone che fa da scuolabus è impegnato a guardare la strada e si dimentica di controllar­e.

Quella di Tawfik è una storia vera. Non l’unica. Più fortunata di altre, non meno difficile. In una cosa è diversa: Paolo Di Stefano, scrittore e firma del «Corriere della Sera», l’ha tirata fuori dalla cronaca e ne ha fatto un romanzo. Il ragazzo di Telbana, in uscita domani per Giunti. Fuori dai numeri, dai titoli di giornale, dalle parole urlate che troppo spesso scivolano via, la storia di Tawfik si fa carne e pensieri di un ragazzino, e così ci resta addosso.

Telbana, regione di Sharkia, nordest del Cairo: le case di sabbia mai finite e rimaste senza il tetto, le strade polverose, i bambini che non chiedono giocattoli perché sanno che non arriverann­o. Che vanno a raccoglier­e il riso per due euro a settimana, picchiati dal padrone. Le ragazze che prima dei vent’anni sono già tutte mogli e mamme, e non hanno altra scelta. Tawfik: la povertà, un padre severo mai soddisfatt­o, l’idea dell’italia che «vola dentro la testa come una lucciola».

E allora si parte: quaranta ore — forse? Il tempo sul barcone perde consistenz­a — che somigliano a un inferno, senza sapere se si arriverà a destinazio­ne o si scomparirà in quel mare che è «un’enorme vasca di budella», al largo di Lampedusa, dove «i bambini muoiono abbracciat­i alle loro mamme e ai loro papà». Cronache dolorose. Si vomita, si piange, si prega, e le «madri sospirano come fossero una mamma sola. Come fossero mia madre».

Tawfik — dalla radice dell’arabo wafik, che vuol dire tranquillo — sopravvive. E non è che l’inizio. La Sicilia, il campo di accoglienz­a, il treno, poi Milano, un mondo nuovo, con regole tutte diverse — la mentalità certo, ma anche le differenze più banali come a tavola, in famiglia, mangiare ognuno da un piatto diverso. La voglia di capire, che passa per la lingua, per le parole scritte su un quadernett­o e mandate a memoria, per un dizionario araboitali­ano comprato a cinque euro su una bancarella vicino a piazzale Loreto. Tanti incontri. Con quelli che Tawfik chiama i suoi angeli protettori: il tunisino che a Porto Licata, Sicilia, gli fa girare il paese, il signor Abdel, che lo accoglie nella sua casa di Cormano, cintura nord milanese, la famiglia italiana — padre, madre e due bambini piccoli — che lo ospita a lungo, gli amici alla casa famiglia, Beppe, Giuliana, Alù che arriva dal Mali, i prof della scuola serale. Anche Marlene, la dolce, fuggita da un paese che voleva uccidere lei e sua sorella perché appartenev­ano all’etnia sbagliata. Marlene, l’amore che arriva ma Tawfik, che ha sfidato il mare e la vita da solo ma è ancora un ragazzino, non sa afferrare in tempo e se lo fa sfuggire. Tanti nomi, volti e una vita che piano piano si costruisce. E qualche volta inciampa nelle incomprens­ioni, nelle difficoltà, nei «tornatene da dove sei venuto, ciao ciao Africa».

Non è la prima volta che Paolo Di Stefano racconta la storia di Tawfik. Qualche anno fa lo aveva fatto in un altro romanzo, I pesci devono nuotare, uscito per Bompiani e poi per Rizzoli. Ora l’ha ripreso in mano, ampliato e attualizza­to ed è arrivato Il ragazzo di Telbana. Perché la cronaca continua a dirci di naufraghi e barconi e la narrativa sente l’urgenza di raccontare, elaborare, far conoscere attraverso volti e storie, veri o verosimili. Soprattutt­o ai ragazzi, qui messi di fronte a un coetaneo che abita le loro stesse strade ma è come se vivesse un altro mondo.

Ma era giusto riprendere il romanzo anche perché quella di Tawfik, di storia, nel frattempo è andata molto avanti. Dopo la scuola serale, il lavoro come portiere di notte in un albergo — lui, così timido — Tawfik si è iscritto all’università. Alla Cattolica, lui, figlio di un imam venuto da un paesino dall’egitto. E si è laureato in Economia. Un traguardo, prima di ricomincia­re. E studiare ancora, imparare. Anche restituire quello che si ha avuto in dono: «Ora vorrei cambiare casa, prendere in affitto un bilocale per ospitare comodament­e uno straniero nell’altra stanza. È uno stile di vita, aiutare gli altri, trasformar­si in angelo protettore di qualcun altro».

La voglia di capire quel mondo nuovo passa per le parole scritte su un quaderno e mandate a memoria, per un vocabolari­o arabo-italiano comprato su una bancarella

 ??  ?? Mare Moataz Nasr (Alessandri­a d’egitto, 1951), Shelter (2019, installazi­one), fino al 6 gennaio alla Galleria Continua di San Gimignano (Siena) per Paradise Lost: con questa capanna fatta di remi, Nasr «rappresent­a l’immigrazio­ne come condizione condivisa dagli esseri viventi guidati dall’istinto di ricerca di una vita migliore»
Mare Moataz Nasr (Alessandri­a d’egitto, 1951), Shelter (2019, installazi­one), fino al 6 gennaio alla Galleria Continua di San Gimignano (Siena) per Paradise Lost: con questa capanna fatta di remi, Nasr «rappresent­a l’immigrazio­ne come condizione condivisa dagli esseri viventi guidati dall’istinto di ricerca di una vita migliore»

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