GLI EX RAGAZZI SCONFITTI DI TARANTO
Il libro di Angelo Mellone
Èla ballata degli sconfitti. Corale e commovente, caotica e distopica. Per il suo quarto romanzo, Angelo Mellone decide di rischiare l’osso dell’anima e di fare i conti della vita giocando su due tavoli... Fino alla fine (Mondadori) che è titolo ma anche promessa, impegno di non mollare almeno stavolta, dopo tante fughe e tanti compromessi a perdere.
Al primo tavolo l’autore piazza «il Mostro», la cornucopia di quattrini e miasmi, fonte di progresso e dolore: l’immenso impianto siderurgico (Italsider, poi Ilva) che sessant’anni fa un’italia ebbra di industrialismo decise di impiantare sullo splendido lungomare di Taranto, stuprandolo con le sue ciminiere, negandone le immense prospettive turistiche ma trasformando i contadini dell’entroterra in fieri «metalmezzadri», una nuova categoria antropologica, l’orgoglio guerriero di fabbrica in luogo delle schiene curve sulle zolle aride della campagna.
Al secondo tavolo Mellone sfida la passione ideologica dei suoi vent’anni, in un’opera di rifrazione che pare scomporne l’identità in quattro personaggi a lui cari già dal romanzo precedente (Nessuna croce manca): Claudio, Dindo, Chiodo e Valeria detta Gorgo. Quattro fascisti degli anni Ottanta (sì, fascisti: imbellettare di eufemismi chi, definendosi camerata, si richiami al Duce e al ventennio aggrava soltanto la confusione di questi nostri tempi opachi). Quattro ex ragazzi ormai cinquantenni che tornano a casa e si ritrovano in una Taranto collocata dentro un futuro molto prossimo, il 2022 — con la fabbrica più che mai in bilico — a fare i conti con le cicatrici dell’età adulta, i reciproci tradimenti, l’abbandono degli ideali, la mercificazione dei propri talenti.
Il libro incrocia questi due tavoli con propositi narrativi molto alti e non sempre mantenuti, perché la giostra di generi — romanzo sociale, formazione generazionale, persino spy story — richiederebbe ritmo costante e virtuosismo continuo. Tuttavia, non delude mai sul piano emotivo, perché pagina dopo pagina si avvinghia alla ragione più vera e autobiografica di questa narrazione, che per Mellone è la sua città, Taranto: «Taranto libera» o da liberare, la Taranto spartana dall’umiliato dna marziale, la Taranto rossoblu degli ultras di calcio e la Taranto di Tamburi, il quartiere dal cimitero rosa (a causa delle polveri dell’acciaieria) che è l’epitome delle sconfitte dei nostri quattro vecchi ragazzi ed è anche un monumento alla sconfitta collettiva, forse ben al di là delle intenzioni dell’autore. Perché, sì, esiste di questa sconfitta collettiva una trasfigurazione retorica (assai presente nel libro e pure in qualche successivo commento sovranista): e sta nella celebrazione della «aristocrazia operaia» forgiata col fuoco e l’acciaio in questi sessant’anni di altiforni lampeggianti nella notte. Esiste un lungo filo che si dipana derubricando gli allarmi in allarmismi, magari messi in giro da qualche potentato «del Nord Europa» voglioso di prendersi tutta la torta dell’acciaio dopo averla strappata alle italiche braccia. Ma, levando gli occhi dalle pagine, sarà difficile, per chi conosca Taranto, negare che la città dei Due Mari sia stata posta per decenni di fronte a un bivio assai ingiusto tra lavoro e salute. E dunque questa sconfitta, nostra, ci accomuna ai quattro ragazzi neri di Mellone. Così come l’assai comune esperienza del tradimento di noi stessi («forse siamo tutti traditori») rammenta anche a chi non ha mai amato la croce celtica una antica e sorprendente militanza condivisa: sotto una bandiera che si chiamava gioventù.
Il libro Angelo Mellone, Fino alla fine. Romanzo di una catastrofe, Mondadori, pagine 516, 21