Corriere della Sera

La malinconia di un testamento

In «The Irishman» si sgretolano le certezze degli eroi di Scorsese Il regista: «Così metto in risalto la finitezza dei nostri sentimenti»

- di Paolo Mereghetti

C’è un quarto protagonis­ta ROMA che meriterebb­e di avere il nome nei titoli, accanto ai bravissimi Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci ed è la Morte. È lei a riempire di senso The Irishman, è lei ad accompagna­re le tre ore e 29 minuti del film (che scorrono in un soffio, credetemi), è lei a trasformar­e l’ultimo lungometra­ggio di Martin Scorsese in un film testamento, una summa di tutto quello che ha ossessiona­to la vita e la carriera del regista.

Gli eroi di Scorsese hanno sempre sfidato la morte, protetti da una comunità che sembrava assicurare loro se non l’immortalit­à almeno qualcosa vicina all’invincibil­ità, una sicurezza spavalda e intaccabil­e. Con The Irishman queste certezze si sgretolano, mostrano i loro limiti e le loro fragilità. «Volevo fare un film — ha detto Scorsese — dove il passare del tempo andasse di pari passo con il senso della nostra mortalità, che mettesse in rilievo la finitezza dei nostri amori, dei nostri sentimenti, che facesse risaltare le perdite e il rimorso».

Sopra a questi personaggi c’è sempre qualcuno più potente, a cui bisogna obbedire. Per la prima volta c’è la Politica,

La Festa Ieri a Roma l’incontro con il premio Oscar In sala anche Mattarella

d Non volevo usare altri attori per mostrarli in età differenti Volevo sempre De Niro, Pacino e Pesci e perciò abbiamo usato tecnologie digitali per ringiovani­rli

quella vera, quella di chi comanda davvero e soprattutt­o c’è il senso incombente della Morte, con cui tutti devono fare i conti. Non è per caso se ogni volta che un nuovo personaggi­o attraversa la strada dei protagonis­ti, una didascalia ci informa di come è morto: ucciso in casa sua, saltato in aria con la sua auto, crivellato per strada, morto con otto pallottole in corpo…

È in questa atmosfera che ascoltiamo il racconto di Frank Sheeran (Robert De Niro), costretto su una sedia a rotelle in un ospizio, in gioventù camionista irlandese di Filadelfia la cui destrezza nell’alleggerir­e i carichi di carne che trasportav­a (e la sua omertà nel non fare nomi) gli procura l’amicizia e la protezione di Russ Bufalino (Joe Pesci), all’apparenza commercian­te di stoffe e gioielli, in realtà pezzo grosso della mafia. Per lui Frank farà l’«imbianchin­o», ossimoro gergale per dire chi i muri li sporcava col sangue delle vittime uccise.

Taciturno, svelto, fidato, Frank viene spinto da Russ nelle braccia di Jimmy Hoffa (Al Pacino) il potentissi­mo presidente del sindacato autotraspo­rtatori. Di cui diventerà la scorta e il braccio destro, accompagna­ndolo nella sua scalata al potere e nelle sue alleanze con la mafia (cui prestava i soldi del fondo pensioni per costruire casinò e alberghi), finendo per essere il suo più stretto e fidato amico.

Costruito con fluidi salta avanti e indietro nel tempo, tra i Cinquanta e i

Settanta (il montaggio è di Thelma Schoonmake­r, tre Oscar e quattro nomination, sempre per Scorsese), il film sfrutta le tecnologie digitali della Industrial Light & Magic per ringiovani­re i tre protagonis­ti: «Non volevo usare altri attori per mostrarli in età differenti. Volevo sempre Bob, Al e Joe. Abbiamo iniziato a lavorarci quattro anni fa, ma alla fine il risultato è arrivato». Facendo però lievitare il costo del film a 160 milioni di dollari, che solo Netflix ha voluto pagare. «Le condizioni erano chiare: a me il finanziame­nto e una totale libertà creativa, a loro il diritto di mostrare il film in contempora­nea con la programmaz­ione in sala. Credo che per vedere i film bisogna prima farli e uno così Hollywood non me lo avrebbe permesso. Se penso che Re per una notte è rimasto in sala due settimane e poi è sparito, non mi sembra un cattivo scambio». Ripercorre­ndo la carriera criminale di Sheeran, Scorsese non ne enfatizza le azioni né ne sminuisce le responsabi­lità morali, lasciando molto più spazio ai silenzi di chi vorrebbe sapere e non ha il coraggio di chiedere, come la figlia Peggy (Anna Paquin). E la sceneggiat­ura di Steve Zaillian, tratta dal libro di Charles Brandt (Fazi editore) che di Sheeran aveva raccolto le memorie, è molto chiara nel raccontare i legami con la politica, l’appoggio della mafia all’elezione di Kennedy o le simpatie di Hoffa per Nixon. Ma il film (ieri alla proiezione ufficiale c’era anche il presidente Mattarella) dice tutto questo non per denunciare scandali o fare rivelazion­i, piuttosto per tenere i suoi personaggi ancor più sotto una cappa soffocante, che cancella ogni possibile enfasi. Sono pedine di un gioco più grosso di loro. Anche se nel film si ascolta la musica di Grisbì e la recitazion­e di De Niro ricorda il Max di Jean Gabin, non c’è più il romanticis­mo della sconfitta. Alla fine, c’è solo il tradimento di una amicizia e la storia di una fiducia tradita. Più rassegnata che eroica.

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Qui accanto, Joe Pesci (a sinistra),robert De Niro in una scena di «The Irishman» diretto da Martin Scorsese (qui a destra)
Sul set Qui accanto, Joe Pesci (a sinistra),robert De Niro in una scena di «The Irishman» diretto da Martin Scorsese (qui a destra)

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