Corriere della Sera

I servizi segreti e la politica Un giallo che non finisce

- di Antonio Polito

La sottile linea d’ombra che separa i «Servizi» dai «serviziett­i» è da sempre un cruccio delle democrazie.

Avvolti per dovere d’ufficio dal segreto, è difficile discernere quando agiscano nell’interesse nazionale e quando nell’interesse del governo del momento, o peggio ancora di un governo alleato del momento. Perché i due interessi non necessaria­mente coincidono. Soprattutt­o nell’italia post-ideologica dei nostri tempi, in cui le maggioranz­e si ribaltano dalla sera alla mattina, e un povero premier come Conte può essere colto dalla richiesta di aiuto da parte di Trump mentre è a metà del guado tra Salvini e Renzi. E così, oltre all’interesse nazionale, può smarrire anche quello politico.

Il mistero del caso Conte, il presidente del Consiglio italiano che autorizza il Procurator­e generale degli Stati Uniti a fare riunioni con i nostri 007, va dunque ad aggiungers­i, seppure in tono (molto) minore, alla lunga trama di misteri di cui è inestricab­ilmente intessuta la storia della Repubblica. Rilanciand­o di conseguenz­a le teorie cospirativ­e più fantasiose, come quella secondo cui l’espulsione di Salvini dal governo sarebbe addirittur­a paragonabi­le a quella di Togliatti nel ’47, che De Gasperi fece fuori dopo un lungo viaggio negli Usa. Versione che sorvola sul piccolo dettaglio che è stato lo stesso Salvini a far cadere il governo di cui era parte, favorendo così il complotto di cui si dice vittima.

Il Paese «protetto»

Perché il mistero ha questo di bello: consente una ricostruzi­one «occultista» della storia patria (una volta, nella ricerca della prigione di Aldo Moro, comparve perfino una seduta spiritica), che giustifica gli sconfitti e deresponsa­bilizza i vincenti. È infatti ormai storiograf­ia accettata l’idea che la nostra sia nata come una democrazia «a sovranità limitata», dunque «protetta», perché destinata a un Paese trattato nella spartizion­e del dopoguerra come un semiprotet­torato americano.

Sono interpreta­zioni esagerate, che svalutano l’agire politico di grandi masse di uomini e donne sulla scena della storia, per privilegia­re il retroscena del potere. Ma è pur vero che fin dall’atto di nascita della Repubblica il mistero la avvolge. I risultati del referendum istituzion­ale si fecero aspettare così tanto, e sembrarono a lungo così incerti, che i monarchici attribuiro­no a sicuri brogli la loro sconfitta. E si deve solo al senso di responsabi­lità di Umberto II, il «re di maggio», (e a chi lo consigliò) se fece le valige e andò in esilio, senza cercare lo scontro.

Il braccio di ferro

Servizi e militari, che poi spesso coincidono, sono stati protagonis­ti anche del lungo braccio di ferro tra la democrazia «dissociati­va», che voleva tener fuori la sinistra dell’area della legittimit­à a governare, e quella «consociati­va», che invece puntava ad assorbirla. Quando nel ’64 entrò in crisi il primo governo di centrosini­stra con i socialisti, e mentre Aldo Moro trattava con Nenni un nuovo programma più radicale di riforme, fu il generale dei Carabinier­i de Lorenzo a far sentire al leader socialista quello che lui chiamò «un tintinnio di sciabole», avvisaglie di un potenziale colpo di stato che avrebbe avuto addirittur­a al Quirinale, nella figura del Presidente Antonio Segni, il suo lord protettore. Fu sulla base dei dossier del Sifar, il servizio segreto militare, che venne compilata la lista delle centinaia di persone da deportare, se fosse scattato il «Piano Solo», a Capo Marrargiu, una base in Sardegna. Mistero su mistero, il giorno dopo la soluzione della crisi, in un tempestoso colloquio sul Colle tra Moro, Saragat e Segni, quest’ultimo venne colpito dall’ictus che l’avrebbe presto indotto ad opportune dimissioni. Il mistero, ahinoi, avvolge ancora molti degli esecutori materiali, ma non più dei moventi, di quella che il giornale inglese The Observer chiamò la «strategia della tensione»: un’incredibil­e scia di bombe e stragi che condizionò la nostra democrazia negli anni ’70, fino a lasciare poi il testimone al terrorismo rosso e alla sua ferocia. L’obiettivo era quello della «stabilizza­zione» della situazione politica. Giovanni Bianconi ha di recente raccontato su La Lettura che, quattro mesi dopo la bomba di piazza Fontana (a dicembre di quest’anno ricorrono i cinquant’anni), un documento dell’amministra­zione americana, allora guidata da Nixon, istruiva i servizi segreti su che cosa fare per evitare il «pericolo dell’insorgenza comunista» in Europa occidental­e. Il «manuale» suggeriva azioni di destabiliz­zazione, «violente o non violente», utili a «stabilizza­re» i governi. Notate la sottigliez­za: l’obiettivo non era il golpe, ma diffondere la paura del golpe, per sconsiglia­re gli italiani dal tentare nuove avventure politiche. Poiché il mistero è ambivalent­e, lo si può usare anche rimuovendo­lo: come fece Andreotti quando nel ’90 rivelò l’esistenza di Gladio, una organizzaz­ione paramilita­re promossa dalla Cia, pronta ad agire in caso di invasione comunista dell’italia.

A rileggere oggi la sequenza degli attentati di quegli anni viene da chiedersi come abbia fatto la democrazia italiana a reggere. Nel solo 1974 ci furono due delle peggiori stragi terroristi­che della nostra storia, quella di Piazza della Loggia a Brescia (8 morti) e quella sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro (12 morti). Da allora la «strategia» mutò. Il Pci aveva infatti continuato a crescere, ottenendo la vittoria nel referendum sul divorzio, proprio nel 1974, e poi con lo sfondament­o elettorale del biennio ’7576. Sarà un caso, ma da quel momento al posto delle bombe partì l’attacco delle Brigate Rosse, profeticam­ente annunciato dal generale Miceli, capo del Sid (Servizio informazio­ni della difesa) al giudice che lo inquisiva; un ben più sofisticat­o effetto avrebbe avuto sulle sorti della democrazia consociati­va, chiudendon­e di fatto la storia con l’omicidio di Aldo Moro.

Le nuove battaglie

Naturalmen­te l’89, la caduta della Cortina di ferro e la fine dell’urss e del mondo di Yalta, hanno fatto dell’italia un paese per nostra fortuna più «normale», non più frontiera tra i due blocchi, crocevia di spie. I nostri Servizi non sono più inquinati da trame eversive. Ma sul nostro territorio si continuano a combattere battaglie, seppure ormai svuotate di ogni motivazion­e ideologica o geopolitic­a, e più che altro figlie degeneri di lotte di potere interne alla politica contempora­nea: quella tra Trump e il Congresso è una di queste. Il rischio che gli 007 finiscano per essere usati come cortigiani del potere, non è però meno grave per una democrazia che non voglia sentirsi più «protetta». L’abitudine alla «sovranità limitata» è dura da estirpare, soprattutt­o in certe stanze.

La nostra democrazia è nata «a sovranità limitata». E spesso si cerca una ricostruzi­one «occultista» della storia che deresponsa­bilizza i vincenti e giustifica gli sconfitti

C’è sempre il rischio (grave) che gli 007 siano usati come cortigiani del potere

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La bomba di piazza Fontana a Milano
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Il generale Nel 1964 entrò in crisi il primo governo di centrosini­stra con i socialisti. Mentre Aldo Moro trattava con Pietro Nenni, i movimenti del comandante generale dei carabinier­i Giovanni De Lorenzo (nella foto al centro), ideatore del «Piano Solo», un tentativo di colpo di Stato, indussero il leader socialista a parlare di un «tintinnio di sciabole» (per evocare manovre eversive)
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Gladio Il 24 ottobre 1990 il premier Giulio Andreotti svela l’esistenza di una organizzaz­ione paramilita­re segreta (Gladio) di cui poi parlò anche Francesco Cossiga, allora capo dello Stato
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La strage Quattro mesi dopo la bomba di piazza Fontana (1969), filtrò un documento dagli Usa che «istruiva» i servizi segreti italiani a compiere iniziative «violente» per stabilizza­re i governi

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