Corriere della Sera

L’atleta che sceglie di morire

Vervoort, 40 anni, campioness­a paralimpic­a, aveva una malattia degenerati­va

- di Claudio Arrigoni

Marieke Vervoort ( foto) ci pensava da anni. «Non voglio più soffrire». Dormiva solo 10 minuti a notte. Inutili le terapie del dolore, bloccata dalle spalle in giù. Così la campioness­a paralimpic­a ha scelto di morire.

La scelta di Marieke è nata tanto tempo fa. Ci pensava da anni. Ne sono passati più di dieci quando firmò i documenti: «Volevo essere pronta». Non sarebbe accaduto subito, ma sapeva che il percorso sarebbe finito lì. Il momento era arrivato: «Non voglio più soffrire». Ormai dormiva dieci minuti a notte. Le terapie del dolore non funzionava­no. Non riusciva a muoversi dalle spalle in giù. Le sue condizioni erano peggiorate. Riprese quei fogli e presentò la domanda per l’eutanasia.

Marieke Vervoort, campioness­a paralimpic­a, medaglie e vittorie sulle piste del mondo, è morta così, scegliendo momento e luogo, a Diest, nelle Fiandre, dove viveva, a 40 anni. Accanto a lei le persone care e Zenn, il suo labrador che le raccogliev­a vestiti e l’avvertiva quando stava arrivando una crisi epilettica.

Marieke amava la vita. Era adolescent­e e passava da un medico all’altro: «Non sapevano cosa avessi e mi davano cattive notizie». Lo scoprirono quando stava avvicinand­osi ai vent’anni: una malattia muscolare degenerati­va con dolori continui, paralisi alle gambe, convulsion­i. La causa è una rara deformità tra la sua quinta e la sesta vertebra cervicale. Tutto era cominciato dal tallone. Negli anni il suo corpo riusciva a muoversi sempre meno. I medici le consigliar­ono di evitare lo sport. «Ma io non potevo smettere di fare sport. Era quello che mi permetteva di vivere». Cominciò quello paralimpic­o: basket in carrozzina, nuoto, vela. Si mise a far triathlon: nuoto, handbike, corse in carrozzina. Divenne campioness­a mondiale nel 2006. «Volevo spingermi oltre». Passò a quello estremo, l’ironman, woman nel suo caso: 3,8 km nel mare, 180 spingendo con le braccia l’handibike e una maratona in carrozzina per finire. L’anno dopo il titolo mondiale concluse quello leggendari­o di Kona, alle Hawaii.

La malattia andava avanti. Il corpo rispondeva sempre meno. Così cominciò con l’atletica in carrozzina. Vinse l’oro sui 100 metri alla Paralimpia­de di Londra 2012 condito da un argento sui 200, fu tre volte campioness­a mondiale nelle gare veloci nel 2015, chiuse con un argento nei 400 e un bronzo sui 100 a Rio 2016. Prendeva morfina prima delle gare. «Lo sport mi teneva in vita. E avevo ancora tante cose da fare: provare il volo acrobatico e il paracaduti­smo, volare su un jet F16, aprire un museo, competere in una gara di rally». Non si fermava mai. Finché il corpo glielo ha permesso. L’ultimo periodo è stato straziante: «Il dolore, così forte. Piango molto. E gli spasmi. È finita». Sorrisi e lacrime. «Devi vivere giorno per giorno e goderti i piccoli momenti. Non sai cosa ti propone la vita». Buddista, da sempre sosteneva l’eutanasia, permessa in Belgio dal 2002: «Se non avessi firmato quei documenti e saputo di poter scegliere quando, sarei morta prima».

Al suo decesso ha voluto che fossero liberate farfalle bianche da una scatola rossa. Voleva essere ricordata come una donna che «rideva e sorrideva, sempre». A settembre aveva esaudito il suo ultimo desiderio guidando una Lamborghin­i sul circuito di Zolder: «Sono stata in grado di realizzare molti sogni». E l’ultima foto postata su Instagram era un suo primo piano mentre spingeva la carrozzina durante una gara: «Non si possono cancellare i bei ricordi!».

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La belga Marieke Vervoort si scalda prima di correre la finale dei 400 metri durante i Giochi paralimpic­i disputati nel 2016 a Rio de Janeiro, in Brasile
(Ap Photo/mauro Pimentel, File)
In gara La belga Marieke Vervoort si scalda prima di correre la finale dei 400 metri durante i Giochi paralimpic­i disputati nel 2016 a Rio de Janeiro, in Brasile (Ap Photo/mauro Pimentel, File)

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