Corriere della Sera

«La mafia a Roma esiste e non è solo quella del Sud La Procura non si rassegna»

L’aggiunto Prestipino e la sentenza della Cassazione: la corruzione resta la vera emergenza criminale della Capitale

- di Giovanni Bianconi

«Mafia capitale» non era mafia , ha stabilito la Corte di Cassazione, e la Procura di Roma ha perso la sua scommessa. Ma il procurator­e aggiunto Michele Prestipino, che da maggio guida l’ufficio in qualità di capo «facente funzioni», rifugge da questa logica.

«Non era una scommessa, e la nostra ricostruzi­one giuridica sull’associazio­ne criminale di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi è stata condivisa dalla Procura generale che ha presentato appello dopo la sentenza del tribunale e dalla Procura generale della Cassazione che ha chiesto la conferma delle condanne inflitte in secondo grado. E prima ancora c’erano stati il giudice che ha concesso gli arresti, il tribunale del Riesame e la stessa Cassazione che respinse i ricorsi cautelari».

Poi però è arrivata la bocciatura, senza nemmeno il rinvio a nuovi giudici. Dunque la vostra impostazio­ne era un azzardo?

«Niente affatto. Anche perché la stessa Cassazione dal 2015 fino al marzo scorso ha ribadito con diverse pronunce l’esistenza delle “piccole mafie” slegate dal controllo del territorio. Ora c’è questo nuovo verdetto, e dalle motivazion­i scopriremo se è stato messo in discussion­e quel principio giuridico oppure se, come ritengo più probabile, si è ritenuto che in questo caso specifico non ci fossero i presuppost­i per applicarlo».

Sta dicendo, nonostante la secca smentita, che non avete sbagliato niente?

«Sto dicendo che per scoprire se e dove abbiamo sbagliato dobbiamo leggere quello che scriverà la Cassazione. Dopodiché ci adegueremo e faremo le nostre valutazion­i. Ma io rivendico il lavoro fatto, che grazie al prezioso sforzo investigat­ivo dei carabinier­i del Ros, ha comunque scoperto e smantellat­o un sistema criminale che, al di là della qualificaz­ione giuridica, era penetrato in maniera importante in alcuni settori dell’amministra­zione comunale di Roma».

Ma era corruzione, non mafia. Non è una differenza da poco.

«A parte il fatto che per noi il “mondo di mezzo” era un unicum non esportabil­e ad altre situazioni e realtà, vorrei fare due precisazio­ni a nome mio e dell’ufficio che rappresent­o. La prima: non ci rassegniam­o all’idea che la corruzione, diffusa e capillare, venga considerat­a come un fattore fisiologic­o nelle dinamiche amministra­tive di questa città. Invece resta la vera emergenza criminale di Roma, una componente gravissima che ne inquina e compromett­e il tessuto sociale e le possibilit­à di sviluppo economico».

La seconda precisazio­ne?

«Con questa sentenza la Cassazione non ha detto che a Roma non c’è la mafia o non ci sono mafiosi, ma solo che a quel particolar­e sodalizio non si può addebitare il metodo mafioso. Restano altri gruppi autoctoni, qualificat­i come mafiosi con sentenze a volte definitive e altre ancora provvisori­e, dai Fasciani, agli Spada ai Casamonica e altre organizzaz­ioni. E pure su questo fronte la Procura di Roma non si rassegna».

A che cosa?

«Al paradigma secondo cui per riconoscer­e il metodo mafioso si debba ricorrere al “criterio etnico”: in presenza di siciliani, calabresi o campani c’è, altrimenti no».

Quindi continuere­te con le «interpreta­zioni evolutive» in materia di mafia?

«Non interpreta­zioni evolutive, ma stretta e rigorosa applicazio­ne di ciò che dice l’articolo 416 bis e che la Cassazione conferma da cinque anni. L’assoluta particolar­ità del Mondo di mezzo non era di essere una “piccola mafia”, bensì l’ipotesi che l’intimidazi­one derivante dal vincolo associativ­o potesse avvenire anche con il controllo di un ambiente sociale, come alcuni settori dell’amministra­zione comunale. Ora vedremo che cosa dirà, su questo punto, la Cassazione».

C’è chi dice che lei e il procurator­e Pignatone, forti delle esperienze siciliane e calabresi, avete esagerato.

«Non capisco in che cosa. Il codice penale è sempre lo stesso, a Palermo come a Reggio Calabria e a Roma. Sono diverse le realtà locali, e sono diverse le mafie».

La vostra inchiesta creò un terremoto politico per via dell’ipotesi mafiosa, che ora è caduta.

Nessuna scommessa «La nostra ricostruzi­one giuridica non era una scommessa»

«Credo che questa Procura abbia dimostrato di svolgere indagini senza preoccupar­si delle ricadute politiche e di chi avrebbero coinvolto. Noi verifichia­mo notizie di reato, a volte chiediamo di fare i processi e molte altre volte archiviamo; poi nei processi i giudici molte volte ci danno ragione e a volte no, anche nello stesso procedimen­to, come in questo caso. È il nostro lavoro, che di certo non ha finalità politiche».

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A sinistra, l’ex procurator­e di Roma Giuseppe Pignatone e, a destra, l’attuale procurator­e facente funzioni Michele Prestipino
(Imagoecono­mica) Insieme A sinistra, l’ex procurator­e di Roma Giuseppe Pignatone e, a destra, l’attuale procurator­e facente funzioni Michele Prestipino

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