Corriere della Sera

L’INTEGRAZIO­NE È UNA GARANZIA PER GLI ITALIANI E I NON ITALIANI

Immigrazio­ne La condizione fondamenta­le per la cittadinan­za non è il luogo di nascita, ma il ciclo di studi o un corso profession­ale, per condivider­e comuni aspirazion­i di futuro

- di Andrea Riccardi

La scorsa legislatur­a si è persa un’occasione: risolvere il problema dei bambini, figli di stranieri, cresciuti in Italia ma senza cittadinan­za italiana. Una svista grave di due governi dalla forte presenza del Pd, tanto da far pensare che sia stata voluta. Eppure una proposta c’era, approvata alla Camera e giacente al Senato fino alla fine della XVII legislatur­a. Non è mai stata calendariz­zata, lasciando il campo a un dibattito mal impostato e gridato. Sono stati gli avversari a dare il nome di ius soli al provvedime­nto per la cittadinan­za, consideran­dolo un’apertura indiscrimi­nata agli stranieri. Lo ius soli è l’acquisizio­ne della cittadinan­za da parte dei nati sul territorio dello Stato anche da genitori stranieri. Come negli Stati Uniti, dove la Costituzio­ne concede la cittadinan­za ai nati in terra americana.

In realtà, la proposta di legge prevedeva tre fattispeci­e: l’acquisizio­ne della cittadinan­za per i nati in Italia da almeno un genitore titolare di diritto di soggiorno permanente; l’acquisizio­ne della cittadinan­za da parte di minore straniero (in Italia entro i 12 anni) che avesse frequentat­o un ciclo scolastico o formativo; l’acquisizio­ne per i giovani arrivati dopo i 12 anni che si sono poi diplomati. Queste ultime due fattispeci­e sono lo ius culturae, che insiste sulla cultura italiana per ottenere la cittadinan­za. Per l’italia, Paese di transito, è molto più appropriat­o lo ius culturae: un’espression­e che avevo lanciato alla fine del 2011 — non a caso — quand’ero ministro dell’integrazio­ne e della cooperazio­ne del governo Monti. Supera gli automatism­i dello ius soli e dello ius sanguinis. Valorizza il processo d’integrazio­ne del bambino, figlio di stranieri, nato in Italia o arrivato nel Paese.

La condizione fondamenta­le non è il luogo di nascita, ma il ciclo di studi o un corso profession­ale. Studi, cultura e lingua portano a integrarsi, mentre si condividon­o comuni aspirazion­i di futuro. Corrispond­e anche alla storia nazionale, dove sentirsi italiani — ricordava Federico Chabod — è fatto di volontà e cultura, non etnico. Far crescere ragazzi di origine non italiana assieme agli italiani nelle scuole (uno su dieci è non

Prospettiv­a

È quindi da salutare positivame­nte la ripresa dell’iter parlamenta­re della legge sullo ius culturae

italiano nelle classi), senza riconoscer­e loro il diritto di acquisire la cittadinan­za, significa non avviare il processo d’integrazio­ne. Questi ragazzi fanno gli studi dei loro compagni italiani, ne parlano la lingua, hanno passioni e gusti simili, pensano il futuro in Italia, ma in radice sono diversi: non si pensano come cittadini italiani. È un’ipoteca alla formazione che li segna da giovani, tanto più assurda, quanto è evidente che l’italia avrà bisogno di loro, come gli imprendito­ri sanno.

È quindi da salutare positivame­nte la ripresa dell’iter parlamenta­re della legge sull’acquisizio­ne della cittadinan­za da parte dei minori, sotto la forma dello ius culturae. Se approvata, porterà alla cittadinan­za 800.000 giovani, che vivono in Italia da anni, di cui 166.000 studenti. La prospettiv­a è un’integrazio­ne efficace per evitare ghetti e mondi a parte, terreno di scontri etnici e di radicalizz­azioni. È una prospettiv­a che impegna anche i genitori dei ragazzi sulla via dell’integrazio­ne. È questo l’aspetto su cui lavorare, più che fermarci a un dibattito sterile (anche se forse pagante in termini elettorali). L’italiano sa bene, nella vita quotidiana, a causa di un parente anziano o di necessità domestiche, il valore dei lavoratori stranieri. Apprezza il volto «domestico» dell’emigrazion­e. La paura viene, quando si guarda al fenomeno da fuori come una massa minacciosa. Gli studiosi mostrano come la paura renda la percezione smisurata. L’integrazio­ne è garanzia per tutti, italiani e non italiani. Giustament­e, ha dichiarato il presidente della Cei, card. Bassetti: l’integrazio­ne «senza un riconoscim­ento normativo sarebbe un contenitor­e vuoto».

Un grande italiano, il presidente Carlo Azeglio Ciampi, cui molto dobbiamo per una rinata narrativa dell’identità nazionale, nel 2004, consegnand­o il diploma di lingua della Dante Alighieri agli studenti stranieri, auspicò, per chi lavorava in Italia, «il conseguime­nto della cittadinan­za italiana»: «Dovrebbe essere possibile ottenerla in un lasso di tempo inferiore a quello richiesto oggi, ma condiziona­to ad alcuni fondamenta­li requisiti». Prima di tutto — spiegò — la conoscenza certificat­a della lingua, poi l’adesione ai principi della Costituzio­ne anche attraverso il giuramento.

Purtroppo, in quindici anni, il dibattito si è allontanat­o da questo sano realismo, mentre il tema immigrazio­ne fa emergere le paure che si nascondono nel cuore di una popolazion­e invecchiat­a e spaesata. Le grandi trasformaz­ioni degli ultimi due decenni «globali» (tra cui il contatto con gli emigrati) sono avvenute senza preparazio­ne e investimen­to culturale. Non solo gli immigrati in Italia ma anche gli italiani hanno un grande bisogno d’investimen­to sulla cultura.

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