Salvatores, un road movie che scava dentro le coscienze
Traslato, reale, metaforico, simbolizzato, il rapporto di padre-figlio è al centro del secondo tempo della carriera di Gabriele Salvatores. Che continua nel road movie verso il Nord, dopo aver esplorato il Sud, e ha scelto per Tutto il mio folle amore il soggetto di un romanzo di Ervas.
Nel folklorico deserto balcanico, tra Slovenia e Croazia, si consuma il tardivo, imbarazzato incontro tra il «Modugno della Dalmazia», un Claudio Santamaria dalla vita sbrindellata e in grandissima forma, col figlio mai conosciuto, un ragazzo autistico di 16 anni cresciuto con mamma Golino e il patrigno Abatantuono. Il miracolo del racconto si palesa e consuma nella parte centrale quando padre e figlio, extraterrestri uno per l’altro, decidono di entrare nelle rispettive coscienze. Dopo due ragazzi invisibili, Salvatores ne mostra uno molto visibile, ma lo fa con grazia, pudore e misura, aiutato dal giovane Giulio Pranno che, se c’è giustizia nel cinema, dovrebbe restare a lungo con noi, perché è fantastico anche nel porsi quasi come doppio, l’ombra sbieca di un padre così sbalestrato.
E se prefazione ed epilogo devono spiegare perché e per come, il girovago senso del film in viaggio, col lento avvicinamento, per entrambi patologico, è certo ben riuscito anche per il triste fascino visivo dei panorami umani e geografici. E ci sono le nuvole, come nell’episodio di Pasolini con la canzone di Modugno e quel verso da cui il titolo: e oggi come allora non si sa cosa sono e dove andranno.