Corriere della Sera

Pasticcio nel calcolo della pena Scarcerato il boss pluriomici­da

Il ricorso viene accolto: libero per la seconda volta l’ergastolan­o Pavigliani­ti

- Luigi Ferrarella lferrarell­a@corriere.it

MILANO In carcere per sempre. No, dentro per 30 anni su 168 teorici. No, dopo 23 anni, fuori per sempre. No, fuori solo per 24 ore, e poi di nuovo dentro fino al 2024. No, di nuovo fuori, e per sempre.

Per quanto stordenti come palline volanti su una roulette impazzita, sono regole. E le regole non si possono forzare, neanche per cercare di tenere comunque in carcere un pluriomici­da ergastolan­o di ‘ndrangheta, che in estate era stato liberato da un particolar­issimo rimbalzo di norme.

Così il 58enne Domenico Pavigliani­ti una settimana fa, senza che si sia saputo, per la seconda volta in due mesi è stato scarcerato dai magistrati per «fine pena». Ma stavolta definitiva­mente: proprio lui che in agosto era stato riarrestat­o, appena 24 ore dopo essere stato liberato grazie alla commutazio­ne in 30 anni del suo ergastolo (peraltro di tipo ostativo a qualunque beneficio), e poi al computo che glieli considerav­a già giuridicam­ente scontati pur a fronte di 23 anni trascorsi in cella.

L’ergastolo, maturato nel 2002 in base alla norma che lo

Il boss Domenico Pavigliani­ti, 58 anni, in una vecchia fotografia

fa discendere da due condanne superiori ciascuna a 24 anni (e lui, su 8 sentenze, ne aveva quattro a 30 anni per altrettant­i omicidi), gli era stato annullato due mesi fa perché l’italia nel 2002 non aveva rispettato la parola data alla Spagna nel 1999 e 2006 che il superlatit­ante, là catturato nel 1996, qui non sarebbe stato sottoposto al carcere a vita, all’epoca non contemplat­o della legislazio­ne iberica.

Caduto l’ergastolo, i 168 anni di somma aritmetica di otto sentenze di condanna erano stati assorbiti, a norma di legge, nel tetto massimo ammesso in Italia da scontare in cella, 30 anni. Ma a questo punto, oltre a 3 anni e mezzo «fungibili» ad altro titolo, gli avvocati Mirna Raschi e Marina Silvia Mori avevano fatto valere anche la detrazione di 3 anni per un indulto, e di oltre 5 anni (1.815 giorni) di «liberazion­e anticipata» (45 giorni per legge ogni 6 mesi espiati): sicché Pavigliani­ti, dopo 23 anni di cella, a febbraio 2019 risultava aver già raggiunto e anzi superato il tetto massimo dei 30 anni. E il 4 agosto il gip aveva dovuto ordinarne «l’immediata scarcerazi­one».

Ma la libertà era durata 24 ore, perché a razzo la Procura di Bologna gli aveva applicato un conteggio diverso da quello della Procura Generale di Reggio Calabria nel 2002: un nuovo calcolo che collocava il fine pena di Pavigliani­ti non più all’11 febbraio 2019, ma al 24 gennaio 2027, facendo leva su una condanna del 2005 (17 anni per associazio­ne mafiosa a Reggio Calabria) che però anche a un osservator­e esterno pareva già tra quelle considerat­e nel primo conto.

E infatti adesso il gip Domenico Truppa rileva che il ricorso di Pavigliani­ti è fondato proprio perché «è evidente» che quella sentenza «non è un elemento di novità sopraggiun­to», in quanto «non solo era stata valutata» nel primo computo del 2002 ma «è stata valutata» già anche dal gip che due mesi fa commutò l’ergastolo in 30 anni: «Era questo provvedime­nto che avrebbe», se mai, «dovuto essere impugnato in Cassazione», ma «tale opzione non è stata perseguita dal pm».

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Fermato

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