Corriere della Sera

LA RICERCA DI UN’INTESA E LE ALLEANZE COMPLICATE

Scenario I partiti di Zingaretti e Di Maio sembrano non essersi resi conto di come, una volta imboccato il sentiero della coalizione, sarà impossibil­e tornare sui propri passi

- di Paolo Mieli

T anto varrebbe che i due partiti prendesser­o atto di questa realtà che darà luogo a innumerevo­li complicazi­oni. E provassero ad evitare di essere costretti — mese dopo mese — a cercare all’ultimo momento candidati che vadano bene a entrambi. Candidati che, come è accaduto all’albergator­e umbro Vincenzo Bianconi, non avrebbero quasi neanche il tempo di farsi conoscere dai potenziali elettori. Pd e M5S possono ovviamente prendere la decisione di non coalizzars­i nelle elezioni amministra­tive che si terranno nel primo semestre 2020 (del resto, ai tempi del loro governo, leghisti e pentastell­ati, mai si presentaro­no assieme). Ma devono saper fin d’ora che ogni eventuale sconfitta verrà messa nel conto dell’incapacità o peggio dell’ignavia dei loro gruppi dirigenti.

Se invece deciderann­o — anche sulla base di quest’ultima consideraz­ione — di procedere uniti, dovranno tener conto di una questione fondamenta­le. La coalizione di governo antisalvin­iana è composta da quattro partiti, quello di Zingaretti e quelli di Renzi, Speranza e Di Maio.

I primi tre hanno avuto occasioni di governo anche nelle amministra­zioni regionali, il M5S soltanto nelle città. Perché i Cinque Stelle accettino di muoversi a sostegno di un candidato del Pd, o di Italia viva o di Leu, che abbia buone possibilit­à di successo, ad esempio il governator­e uscente dell’emilia Romagna Bonaccini (oppure quelli, con minori chance, di Marche, Toscana, Campania, Calabria, Puglia) sarebbe necessario che la sinistra offrisse pari disponibil­ità per personalit­à

provenient­i dalle file grilline. Altrimenti si dovrebbe andare ogni volta alla ricerca di candidatur­e «civiche» che spesso non offrono garanzia di tenuta né sul piano politico né su quello elettorale. Nessuna formazione può lasciarsi considerar­e in partenza gregaria delle altre.

Qualora decidesser­o di procedere assieme, i quattro partiti della coalizione, tutti e quattro, dovrebbero sentirsi obbligati a trovare punti di incontro tra le loro precedenti esperienze per poi cercare candidati che portino voti ma che creino anche tra loro una qualche armonia. E perché ciò accada, l’accordo tra le quattro forze non può che essere globale e preventivo. Perché? Per il fatto che solo trovando un’intesa che valga per tutte (o quasi) le regioni e per tutte (o quasi) le città che andranno al voto, ogni componente della coalizione di governo potrà trovare la motivazion­e a giocare con impegno l’intera partita. Altrimenti ci sarà sempre qualcuno — ieri in Umbria è stata la volta di Renzi — che non si presenterà all’appuntamen­to.

Restiamo su Renzi. È chiaro che Italia viva è la componente più recalcitra­nte ad una sorta di patto stabile con Pd, Leu e M5S: il movimento renziano si è dato come missione quella di intercetta­re una rilevante parte di elettorato provenient­e dal centro e dalla destra. Un’impresa ardua già di per sé. Ma sarebbe ancora più problemati­ca nel caso il senatore di Rignano si alleasse stabilment­e con i seguaci di Grillo e con una sinistra peraltro a lui ostile. Tuttavia Renzi resta pur sempre nel governo ed è costretto a puntellare la legislatur­a, ragion per cui vale la pena per i soci di maggioranz­a provare a coinvolger­lo anche in sede locale. Chiaro dunque che da adesso in poi a Pd e M5S non sarà sufficient­e trovare un’intesa tra loro, ma la dovranno estendere al pur docile partito di Bersani e Speranza e a quello riottoso di Renzi. Missione complicata. In compenso la scissione renziana dovrebbe offrire una formidabil­e opportunit­à per la verifica di un teorema assai diffuso in anni recenti tra i politologi di sinistra. Secondo tale teoria, il Pd avrebbe perso un gran numero di elettori rifugiatis­i tra i Cinque Stelle o nell’astensione a causa del «deragliame­nto» del treno riformista (il termine è stato usato dal prodiano Franco Monaco) di cui sarebbe stato «artefice» Matteo Renzi. Turbati dal metaforico incidente ferroviari­o, tali elettori avrebbero cercato rifugio tra i Cinque Stelle o nell’astensione. Strano, si potrebbe osservare, che quei fuggitivi non abbiano riparato, già alle elezioni del 2018, nelle carrozze di Leu. Ma — si disse all’epoca — quei vagoni erano stati allestiti troppo in fretta per essere in grado di attrarre gli elettori in fuga da Renzi. Ma adesso che Renzi se n’è andato e il partito di cui fu segretario ha ripreso a viaggiare sull’antico binario, dovremmo assistere alla scena di passeggeri che affollano le stazioni nell’ansia di salire sul treno zingaretti­ano. Sia nelle elezioni politiche (quando verranno) sia in quelle amministra­tive. A cominciare da subito, dalle stazioni che furono rosse di Perugia, Terni, Orvieto, Todi. Dovesse accadere, per il Pd sarà certamente più agevole trattare in vista delle complicate alleanze di cui si è detto.

Renzi

È chiaro che Italia viva è la componente più recalcitra­nte a un patto stabile con Pd, Leu e M5S

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