Myanmar senza tempo
Dagli antichi templi sacri di Bagan alle bellezze coloniali di Mandalay Dove il progresso non è arrivato
«Ci sono viste al mondo dinanzi alle quali uno si sente fiero di appartenere alla razza umana. Bagan all’alba è una di queste. Nell’immensa pianura, segnata solo dal baluginare argenteo del grande fiume Irrawaddy, le sagome chiare di centinaia di pagode affiorano lentamente al buio dalla nebbia: eleganti, leggere, ognuna come un delicato inno a Buddha». Così scriveva Tiziano Terzani nel 1991, arrivando nell’antica capitale birmana che aveva affascinato anche Marco Polo. Quanti siano i templi di Bagan è materia controversa: alcune leggende parlano di 9.999, dal nove numero magico a queste latitudini. Altre più attendibili, ne stimano 4.000, anche se quasi la metà è stata distrutta dai saccheggi delle orde del Kublai Khan nel XIII secolo. Ma resta vero il detto raccolto da sir James George Scott, approdando su queste sponde alla fine dell’ottocento: «Non si può muovere un piede senza calpestare qualcosa di sacro».
«Dall’alto del tempio di Ananda si sentono i galli cantare, i cavalli scalpicciare sulle strade ancora sterrate — continuava Terzani —. È come se una qualche magia avesse fermato questa valle nell’attimo passato della sua grandezza». Ananda è uno dei templi più belli di tutta Bagan. Lo fece costruire nel 1090 un re che, affascinato dalle storie dei monaci venuti dall’india, volle ricreare in questa piana i paesaggi innevati dell’himalaya. Quando il tempio, con i suoi pinnacoli bianchi, fu però finito, il sovrano diede ordine di giustiziare l’architetto che l’aveva realizzato. Non voleva che costruisse niente di più bello.
A Bagan come a Mingun — altra città lungo l’irrawaddy, dove il fabbro a cui venne commissionata la campana più grande del mondo, ancora oggi sospesa all’interno dell’omonima pagoda, fu mandato a morte una volta completata l’opera — quegli antichi monarchi volevano fermare il tempo. Esattamente come avrebbero fatto, molto più tardi, i generali che nell’ultimo mezzo secolo hanno represso nel sangue ogni richiesta di cambiamento. E così è stato anche dopo che, nel 2015, la giunta militare ha lasciato il posto al primo governo eletto democraticamente, guidato dal partito dell’ex dissidente e premio Nobel Aung San Suu Kyi.
Nonostante questa svolta, infatti, che ha comportato l’apertura agli investimenti stranieri, la nazione resta ancorata all’immagine che ha stregato tanti viaggiatori nel passato. Quella di una Birmania antica, dove niente è moderno, e il progresso ancora non è arrivato. Dove i battelli continuano a scivolare lentamente sulle acque fangose dell’irrawaddy, l’imponente fiume che dagli altipiani dell’himalaya sfocia nel golfo del
Bengala, costeggiando le antiche capitali del Regno dell’elefante bianco, senza incontrare una fabbrica, una costruzione di cemento, un traliccio elettrico, un serbatoio di petrolio. Dove magrissimi contadini, vestiti solo con coloratissimi longyi, tirano l’aratro ancora con l’aiuto di bufali, nelle risaie verde smeraldo che s’incontrano; e dove i pescatori del lago Inle vivono in case su palafitte, come se non fossimo nel XXI secolo, ma in altri tempi. Quando la Birmania era ancora una provincia dell’india coloniale e davanti alla pagoda Shwedagon di Yangon, il tempio più antico del Paese, Rudyard Kipling si disse folgorato dalla «splendida meraviglia luccicante che ardeva al sole». Lo scrittore, che aveva girato in lungo e largo l’oriente, si innamorò di questa terra, al punto da desiderare un funerale birmano, «con venti iarde di seta regale, tessute a Mandalay, attorno al mio corpo».
Non andò così. Ma è con il suo sguardo su questo mondo immutato, e l’incanto che ci ha trasmesso, che i viaggiatori continuano ancora oggi ad avvicinarsi al Myanmar, Paese dei mille elefanti.