«Quando dissi a Berlusconi: in politica meglio di no»
Mario Segni: «L’idea della battaglia per il maggioritario me la fece venire Pannella, il più entusiasta fu Occhetto Sono stato ingenuo: mi spettavo l’appoggio della Dc Poi il referendum del ’99 fu l’inizio della restaurazione»
La Prima Repubblica nella testimonianza di Mario Segni. Il consiglio a Berlusconi: «Non entri in politica».
Mario Segni, non si può parlare di fine della prima Repubblica senza la tua testimonianza. Tu nasci politicamente maggioritario? Un democristiano non proporzionalista alla fine degli anni Ottanta è un’eccezione...
«Essere per il maggioritario nella Dc non era facile. Ricordo che ci fu ad un certo punto, febbraio 1979, l’incarico a La Malfa. Lui, per motivi sostanzialmente tattici, ben diversi dai miei, si era convinto che bisognava arrivare in Italia al maggioritario. La ragione è che voleva fregare Craxi, nella sostanza. Proponeva: facciamo il quadripartito, senza Craxi, e la legge maggioritaria. Facemmo una lunga chiacchierata con il proposito poi di farne un pezzo giornalistico, con Augusto Barbera, Ronchey. Passammo mezza giornata, registrando e scrivendo. Se non sbaglio doveva essere Ronchey a trarne un pezzo giornalistico. Ma non se ne fece nulla. Era poco dopo la morte di Moro. Il ragionamento di La Malfa era questo: era possibile una situazione diversa, quella della legittimazione del Pci attraverso un’alleanza di governo, finché c’era Moro, come garante. Non c’è più Moro, il Pci torna indietro, si arrocca e quindi noi restiamo sotto il giogo di Craxi. Liberiamoci di questo e governiamo l’italia. Aveva una sua lucidità».
Facciamo un passo indietro, nel ’77 tu firmi, insieme con una serie di deputati della destra democristiana, un documento contro la solidarietà nazionale. Che cosa non ti convinceva di quella formula?
«Era, nelle nostre intenzioni, la fase iniziale di un movimento di idee nuove dentro la Democrazia cristiana. Durò poco, fu limitato nei suoi effetti, però ebbe una sua vitalità. Era il tentativo di infondere nella Dc una cultura liberale, che diciamo la verità, nella Dc era molto limitata dal massimalismo della sinistra interna da una parte e dall’altra parte dallo statalismo doroteo. Era una merce rarissima, naturalmente incoraggiata dalla candidatura di Umberto Agnelli che aveva suscitato interesse in certi ambienti, anche insospettabili. Per esempio ricordo l’entusiasmo per questo tipo di iniziativa di Andreatta, che pure era della sinistra democristiana e vicino a Moro».
Anche Scalfaro firmò quel documento...
«Scalfaro però se ben ricordo era interessato più a una rottura politica della solidarietà nazionale piuttosto che all’assunzione, nella Dc, di una cultura liberale. Noi anche eravamo contrari a quell’esperimento, in primo luogo perché contrastavamo il consociativismo. Nessuno di noi pensava, in quel momento, a far nascere una campagna maggioritaria referendaria, ma l’opposizione alla solidarietà nazionale era coerente, nella nostra visione liberale: il rapporto Dc-pci doveva sfociare nell’alternativa fra i due grandi blocchi, non nell’abbraccio. Fu un’azione che ebbe un notevole successo, nei gruppi parlamentari. Più per anticomunismo che per vera cultura liberale, per essere sinceri. Molti avvertivano il clima mutato di quegli anni. Quell’iniziativa trovò, non sembri paradossale, una interlocuzione molto attenta con Moro, il quale sentiva come un dovere tenere la Dc più unita possibile. E capiva che noi interpretavamo una spinta esterna forte, c’era Montanelli, ad esempio, che ci sosteneva. Avevamo con lui un’interlocuzione frequente, specie sugli elementi di programma».
Ti ricordi il suo ultimo discorso al Gruppo della Dc per convincerli a sostenere il governo Andreotti?
«Benissimo».
Che impressione ti fece?
«Molto netto e molto chiaro. Fu assolutamente esplicito sulla direzione di marcia. Lui stesso prima era stato più reticente, più cauto, più prudente. Grande discorso. Fu l’atto politico decisivo della sua scelta strategica, coraggiosa e sofferta».
Come hai vissuto i giorni del rapimento?
«Il ricordo che ho è la situazione caotica in cui erano venuti a trovarsi gli organi di polizia. Si vedeva la casualità, la disorganizzazione. Io ho avuto sempre l’impressione che Cossiga avesse dato un grande contributo a questo caos della polizia, anche perché lui aveva la mania di fare il poliziotto, dava le direttive, si intrometteva, aveva creato questi strani comitati. Io credo che facesse una grandissima confusione. Il merito di Rognoni, uomo più semplice, forse meno brillante di Cossiga ma più concreto e più efficace, fu quello di ridare ad ognuno il suo ruolo, quindi i poliziotti facessero i poliziotti e i carabinieri facessero i carabinieri. Tanto è vero che la sua prima mossa, azzeccata, fu quella di nominare dalla Chiesa».
Dopo la solidarietà nazionale c’è il buco nero del pentapartito che fu una stagnazione di cui il debito pubblico italiano è testimonianza. Quando ti nasce l’idea del referendum? Come?
«L’idea della battaglia per il maggioritario me la fece nascere Pannella, che creò la Lega per il collegio uninominale. Si costituì a livello parlamentare e c’erano dentro tutti i radicali, era patrocinata dai socialisti. Formica era uno dei più attivi, tanto è vero che si raccoglievano fondi e i soldi venivano versati all’avanti. Cose che raccontate oggi... Questa Lega fece delle cose molto belle sul piano culturale, fu molto attiva. Questa è la parte precedente. Dopo di che però il referendum fu inventato non da me, ma dal Congresso della Fuci presieduto da Guzzetta, con Ceccanti e Tonini. Guzzetta trovò anche il meccanismo giuridico e io lo seppi dai giornali. La cosa mi interessò, andai a trovare i fucini assieme a Bartolo Ciccardini e immediatamente si aggiunse Pietro Scoppola, che fu uno degli animatori dell’inizio della battaglia referendaria e una delle anime decisive del movimento. Stiamo parlando, non a caso, dell’89. Nel ’90 partì la prima raccolta di firme».
Quanto contò la caduta del muro in questa scelta?
«Enormemente. La caduta del muro fu quella che ci fece capire chiaramente che l’alternanza era finalmente possibile. Che era caduto veramente il grande ostacolo, era finito un sistema. Che aveva tenuto bloccata la democrazia italiana».
Chi sono i primi compagni di strada che trovi in questa vicenda?
«Il passaggio decisivo è il colloquio con Occhetto, che era già stato avvicinato da Pannella. Quando andai da Occhetto lo trovai entusiasta. La causa referendaria deve molto ad Occhetto. Quelli che sono stati poi addebitati come suoi difetti in questo caso furono essenziali per l’esito di quella battaglia. Era un uomo che si buttava, impulsivo, coraggioso, forse anche eccessivamente. Senza questa determinazione probabilmente non sarebbe mai partita la sfida. Occhetto la sposò con entusiasmo. Dopodiché raccogliemmo in quel periodo le adesioni più strane, ci furono convergenze da tutte le direzioni. Per esempio un gruppo attivissimo fu l’associazione Nazionale Donne Elettrici, giovani fucine, anziane nobili, un mondo stranissimo, eterogeneo sul piano sociale e politico. C’era persino la cognata di Andreotti... Un grande contributo venne da Paolo Barile che poi ci difese e collaborò molto alla costruzione giuridica del quesito. Ci fu un evento che ci fece decidere per la strada referendaria. Verso la fine del 1989, arrivò in parlamento la riforma degli Enti locali presentata da Gava, il ministro dell’interno, governo Andreotti. Noi presentammo un emendamento per l’elezione diretta del Sindaco, raccogliendo moltissimi voti. Gran parte del gruppo della Dc era favorevole, i missini anche, e pure nel Pci raccogliemmo molto consenso. L’emendamento poteva, a scrutinio segreto, essere approvato. Noi eravamo addirittura disposti ad un accomodamento gradualista che facesse iniziare la riforma dai piccoli comuni. Andreotti non rispose neanche, Craxi fu durissimo. Andreotti pose la fiducia e così noi ci accorgemmo che la strada legislativa era chiusa, per sempre. Restava solo il referendum».
Nella Dc ti fecero una guerra spietata. Mi racconti i passaggi più duri?
«Per la Dc fu una grande occasione mancata. Eravamo agli inizi del pentapartito e fu decisiva la durezza di Craxi. Io non me l’aspettavo, perché Craxi era stato l’inventore della grande riforma. Invece fece un ragionamento puramente tattico. Disse che non ci sarebbe stato più un sindaco socialista, che gli eletti direttamente sarebbero stati tutti o democristiani o comunisti. Per la Dc contò, per determinare l’opposizione al referendum, il convinto appoggio di Occhetto. Sarò stato ingenuo, ma ero convinto che la Dc sarebbe stata su posizioni diverse e il paradosso fu che una riforma di tipo gollista passò, in Italia, con l’appoggio della sinistra e con la feroce contrarietà di tutto il mondo politico cosiddetto moderato. Poi noi, per fortuna, avevamo l’appoggio di Montanelli, della Confindustria, dell’associazionismo sociale. Ma Forlani, Andreotti, Craxi che in quel momento erano i detentori del potere, erano ferocemente contrari e fecero di tutto per batterci...».
Chi, della Dc, cercò di intimorirti?
«Ricordo i colloqui con Forlani. Forlani era un uomo gentile, non era un duro, ma sul tema fu fermissimo. Forlani avvertiva pienamente l’opposizione durissima di Ruini e di tutto il mondo cattolico organizzato. Poi ci furono con noi la Fuci e pezzi importanti dell’associazionismo. Ma il giornale più ostile di tutti fu l’avvenire. Fu un elemento importante, che aumentò enormemente le nostre difficoltà. Ma, più in generale lo considero un grave elemento di crisi strutturale della Democrazia cristiana e di tutto quel mondo. Fu uno dei grandi sbagli strategici di quella fase».
In fondo la Dc non aveva capito la caduta del muro? Pensava che tutto potesse continuare come prima?
«Nella sostanza, sì».
Poi arriva Tangentopoli...
«La vittoria del ’91 non ha niente a che fare con Tangentopoli. Lì la Democrazia cristiana effettivamente entra in crisi, perché molta parte del voto dei Sì nel ’91 era democristiana. Una buona parte dell’elettorato democristiano aveva disatteso le indicazioni del partito».
Fu un po’ come per il divorzio?
«Sì, esattamente. Uno scossone che fece tremare tutto il sistema politico».
In quel momento è leggenda che tu avessi il Paese in mano?