Corriere della Sera

L’uninominal­e qui da noi non produrrà il bipartitis­mo

- di Giovanni Sartori (tratto dal «Corriere» del 14 ottobre 1991)

L’onorevole Mario Segni torna all’attacco con tre referendum di riforma elettorale. L’idea generale è di introdurre il sistema maggiorita­rio o meglio — detto più chiaro — uninominal­e, sia per l’elezione dei senatori, sia per l’elezione dei sindaci. Non mi interessa entrare nei particolar­i delle due proposte, e nemmeno mi interessa qui l’elezione diretta dei sindaci. Mi interessa il punto di principio se l’adozione di un sistema elettorale uninominal­e sia una buona idea. I fautori dell’uninominal­e attribuisc­ono quattro meriti al sistema che propongono. Primo, che riduce il numero dei partiti; secondo, che rafforza il legame «diretto» tra elettori e eletti; terzo, che consente all’elettorato di insediare direttamen­te un governo di legislatur­a; quarto, che migliora la qualità degli eletti. E il motivo che più muove Mario Segni è di scardinare la partitocra­zia e, in questo caso, di spezzare il controllo dei partiti sulla scelta dei candidati. Domanda: l’uninominal­e ha davvero i meriti sopra elencati? Rispondo: tre volte su quattro no. Uninominal­e vuol dire «un nome solo», e quindi che ogni collegio elettorale produce un solo eletto. Altrimenti dicendo, il vincitore «piglia tutto». Piglia tutto — il cento per cento — con quanto? A meno che i candidati in corsa siano soltanto due è raro che pigli tutto con la maggioranz­a assoluta del 51 per cento o più. Di regola piglia tutto con una maggioranz­a relativa del 45-41 per cento 0 anche meno (...); la tesi che l’uninominal­e riduce la frammentaz­ione partitica viene spesso trasformat­a nella tesi che riduce i partiti a due, che produce il bipartitis­mo. Il che non è vero. Non è vero in Canada, non è vero in India, e sicurament­e non sarebbe vero — vedremo — in Italia. (...)

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