L’uninominale qui da noi non produrrà il bipartitismo
L’onorevole Mario Segni torna all’attacco con tre referendum di riforma elettorale. L’idea generale è di introdurre il sistema maggioritario o meglio — detto più chiaro — uninominale, sia per l’elezione dei senatori, sia per l’elezione dei sindaci. Non mi interessa entrare nei particolari delle due proposte, e nemmeno mi interessa qui l’elezione diretta dei sindaci. Mi interessa il punto di principio se l’adozione di un sistema elettorale uninominale sia una buona idea. I fautori dell’uninominale attribuiscono quattro meriti al sistema che propongono. Primo, che riduce il numero dei partiti; secondo, che rafforza il legame «diretto» tra elettori e eletti; terzo, che consente all’elettorato di insediare direttamente un governo di legislatura; quarto, che migliora la qualità degli eletti. E il motivo che più muove Mario Segni è di scardinare la partitocrazia e, in questo caso, di spezzare il controllo dei partiti sulla scelta dei candidati. Domanda: l’uninominale ha davvero i meriti sopra elencati? Rispondo: tre volte su quattro no. Uninominale vuol dire «un nome solo», e quindi che ogni collegio elettorale produce un solo eletto. Altrimenti dicendo, il vincitore «piglia tutto». Piglia tutto — il cento per cento — con quanto? A meno che i candidati in corsa siano soltanto due è raro che pigli tutto con la maggioranza assoluta del 51 per cento o più. Di regola piglia tutto con una maggioranza relativa del 45-41 per cento 0 anche meno (...); la tesi che l’uninominale riduce la frammentazione partitica viene spesso trasformata nella tesi che riduce i partiti a due, che produce il bipartitismo. Il che non è vero. Non è vero in Canada, non è vero in India, e sicuramente non sarebbe vero — vedremo — in Italia. (...)