«Il cibo made in Italy è un’eccellenza mondiale Il futuro è la qualità»
Vacondio (Federalimentare): l’export? Più 85% in 10 anni
Dopo il metalmeccanico, l’alimentare rappresenta il secondo settore dell’industria manifatturiera italiana, con 142 miliardi di fatturato, di cui 42 grazie alle esportazioni. E Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare, ne va fiero. Più che i dazi, teme le fake news, «una delle ragioni per cui i consumi alimentari italiani sono scesi di 10 punti percentuali negli ultimi 10 anni: a forza di spaventarli, i consumatori scappano. Per fortuna che ci ha aiutato l’export, con l’incremento dell’85% nello stesso periodo, perché il cibo italiano è riconosciuto nel mondo come un prodotto premium. E dà lavoro a 385 mila dipendenti per i quali stiamo rinnovando il contratto, con l’accordo che contiamo di chiudere poco prima o subito dopo Natale».
Le fake news più deleterie della crisi?
«Sono calati i consumi pro capite anche di prodotti che di certo non possono essere considerati cari, come la pasta, per la quale non si può dire che la gente spenda meno a causa della crisi. Nel primo semestre del 2019 il consumo di pasta in Italia è sceso dell’1,5%, contro un aumento del 2,5% all’estero».
Ma a quali fake news fa riferimento?
«Secondo me hanno pesato, nel calo del 10% dei consumi di pasta in Italia nell’ultimo decennio, di cui il 5% negli ultimi due anni, per un buon 50%. Continuare a sentire che la pasta si fa con grano non buono importato dall’estero, alla fine produce effetti. Negativi».
Il riferimento è alle campagne di Coldiretti sul grano importato dal Canada a rischio glifosato?
«Capisco che Coldiretti debba tutelare gli associati, così come è vero che la remunerazione del grano è troppo bassa: per questo sono d’accordo nel valorizzare la produzione nazionale. Ma non bisogna demonizzare quella estera. La produzione italiana non è sufficiente al fabbisogno: in Italia si producono 3 milioni di tonnellate di grano duro e ce ne servono 6. La metà deve arrivare dall’estero».
Senza glifosato, però.
«E arriviamo alla fakenews: il grano importato dal Canada costa il 30% in più di quello italiano. Può mai essere che l’industria paghi di più un grano non buono? Si tratta di prodotto certificato, importato secondo la legislazione vigente, e comunque dai controlli sul grano canadese, oltre il 90% è risultato senza glifosato e il restante con tracce entro i limiti consentiti. E poi non importiamo solo dal Canada».
Le notizie false riguardano solo il grano?
«No, ne girano anche nel settore della carne, in particolare sui danni di quella rossa. Non voglio scendere nei particolari, ma solo dire che il problema non è mai il singolo alimento, ma quanto se ne mangia, quindi la dieta vista complessivamente. Lo stesso vale anche per lo zucchero: fa male
Fake news Sui consumi domestici, scesi del 10% in 10 anni, hanno pesato più le notizie false della crisi
Pasta e carne Sono i settori più colpiti dalle fake news. Il grano importato dal Canada? È un prodotto certificato
se preso in quantità sbagliate. Del resto, nei paesi dove hanno messo la tassa sullo zucchero, non si sono ottenuti risultati evidenti nel contrasto all’obesità. Se le false notizie fossero vere, il made in Italy alimentare non sarebbe un marchio premium».
I dazi Usa potrebbero mettere a rischio questo riconoscimento internazionale?
«Non credo. Posto che i dazi sono comunque da evitare e ci batteremo perché vengano tolti, non devono spaventarci. Non solo perché in questa tornata i prodotti italiani sono stati colpiti meno di altri, ma proprio perché i nostri prodotti sono premium: se il Parmigiano reggiano negli Stati Uniti passa a 45 dollari al chilo, contro il Parmesan a 8 dollari, il consumatore che lo comprava a 40 dollari continuerà a preferirlo anche a 45. Non lo compra perché ha fame, ma perché riconosce la sua eccellenza. Se continuiamo con la qualità, continueremo a esportare».
Insomma, il problema è solo il mercato interno?
«Diciamo che anche da questo si è tratto beneficio: i tanti nostri piccoli produttori — e mi preme sottolineare che delle nostre circa 7 mila aziende associate, solo il 2% supera i 250 dipendenti, con il 90% compreso tra i 9 e i 50 — anche a causa della diminuzione dei consumi interni hanno dovuto girare il mondo con la valigetta per vendere i loro prodotti. E oggi sui 42 miliardi di export agroalimentare italiano, 33 fanno capo alle industrie di trasformazione. Anche grazie agli accordi bilaterali, penso a quelli con il Canada e il Mercosur, che dovrebbero moltiplicarsi, non essere demonizzati, proprio perché il cibo italiano viene visto come status symbol. Se in Italia viene gente attratta dal nostro cibo, e il turismo enogastronomico lo testimonia, un motivo ci sarà».