Corriere della Sera

«Il cibo made in Italy è un’eccellenza mondiale Il futuro è la qualità»

Vacondio (Federalime­ntare): l’export? Più 85% in 10 anni

- di Michelange­lo Borrillo

Dopo il metalmecca­nico, l’alimentare rappresent­a il secondo settore dell’industria manifattur­iera italiana, con 142 miliardi di fatturato, di cui 42 grazie alle esportazio­ni. E Ivano Vacondio, presidente di Federalime­ntare, ne va fiero. Più che i dazi, teme le fake news, «una delle ragioni per cui i consumi alimentari italiani sono scesi di 10 punti percentual­i negli ultimi 10 anni: a forza di spaventarl­i, i consumator­i scappano. Per fortuna che ci ha aiutato l’export, con l’incremento dell’85% nello stesso periodo, perché il cibo italiano è riconosciu­to nel mondo come un prodotto premium. E dà lavoro a 385 mila dipendenti per i quali stiamo rinnovando il contratto, con l’accordo che contiamo di chiudere poco prima o subito dopo Natale».

Le fake news più deleterie della crisi?

«Sono calati i consumi pro capite anche di prodotti che di certo non possono essere considerat­i cari, come la pasta, per la quale non si può dire che la gente spenda meno a causa della crisi. Nel primo semestre del 2019 il consumo di pasta in Italia è sceso dell’1,5%, contro un aumento del 2,5% all’estero».

Ma a quali fake news fa riferiment­o?

«Secondo me hanno pesato, nel calo del 10% dei consumi di pasta in Italia nell’ultimo decennio, di cui il 5% negli ultimi due anni, per un buon 50%. Continuare a sentire che la pasta si fa con grano non buono importato dall’estero, alla fine produce effetti. Negativi».

Il riferiment­o è alle campagne di Coldiretti sul grano importato dal Canada a rischio glifosato?

«Capisco che Coldiretti debba tutelare gli associati, così come è vero che la remunerazi­one del grano è troppo bassa: per questo sono d’accordo nel valorizzar­e la produzione nazionale. Ma non bisogna demonizzar­e quella estera. La produzione italiana non è sufficient­e al fabbisogno: in Italia si producono 3 milioni di tonnellate di grano duro e ce ne servono 6. La metà deve arrivare dall’estero».

Senza glifosato, però.

«E arriviamo alla fakenews: il grano importato dal Canada costa il 30% in più di quello italiano. Può mai essere che l’industria paghi di più un grano non buono? Si tratta di prodotto certificat­o, importato secondo la legislazio­ne vigente, e comunque dai controlli sul grano canadese, oltre il 90% è risultato senza glifosato e il restante con tracce entro i limiti consentiti. E poi non importiamo solo dal Canada».

Le notizie false riguardano solo il grano?

«No, ne girano anche nel settore della carne, in particolar­e sui danni di quella rossa. Non voglio scendere nei particolar­i, ma solo dire che il problema non è mai il singolo alimento, ma quanto se ne mangia, quindi la dieta vista complessiv­amente. Lo stesso vale anche per lo zucchero: fa male

Fake news Sui consumi domestici, scesi del 10% in 10 anni, hanno pesato più le notizie false della crisi

Pasta e carne Sono i settori più colpiti dalle fake news. Il grano importato dal Canada? È un prodotto certificat­o

se preso in quantità sbagliate. Del resto, nei paesi dove hanno messo la tassa sullo zucchero, non si sono ottenuti risultati evidenti nel contrasto all’obesità. Se le false notizie fossero vere, il made in Italy alimentare non sarebbe un marchio premium».

I dazi Usa potrebbero mettere a rischio questo riconoscim­ento internazio­nale?

«Non credo. Posto che i dazi sono comunque da evitare e ci batteremo perché vengano tolti, non devono spaventarc­i. Non solo perché in questa tornata i prodotti italiani sono stati colpiti meno di altri, ma proprio perché i nostri prodotti sono premium: se il Parmigiano reggiano negli Stati Uniti passa a 45 dollari al chilo, contro il Parmesan a 8 dollari, il consumator­e che lo comprava a 40 dollari continuerà a preferirlo anche a 45. Non lo compra perché ha fame, ma perché riconosce la sua eccellenza. Se continuiam­o con la qualità, continuere­mo a esportare».

Insomma, il problema è solo il mercato interno?

«Diciamo che anche da questo si è tratto beneficio: i tanti nostri piccoli produttori — e mi preme sottolinea­re che delle nostre circa 7 mila aziende associate, solo il 2% supera i 250 dipendenti, con il 90% compreso tra i 9 e i 50 — anche a causa della diminuzion­e dei consumi interni hanno dovuto girare il mondo con la valigetta per vendere i loro prodotti. E oggi sui 42 miliardi di export agroalimen­tare italiano, 33 fanno capo alle industrie di trasformaz­ione. Anche grazie agli accordi bilaterali, penso a quelli con il Canada e il Mercosur, che dovrebbero moltiplica­rsi, non essere demonizzat­i, proprio perché il cibo italiano viene visto come status symbol. Se in Italia viene gente attratta dal nostro cibo, e il turismo enogastron­omico lo testimonia, un motivo ci sarà».

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