Corriere della Sera

IL SENSO DI UN VOTO

- Di Ernesto Galli della Loggia

La Prima Repubblica non è finita il 27 marzo 1994 con la vittoria di Silvio Berlusconi: è finita domenica sera a Perugia. Finisce adesso. Perché solo adesso, solo domenica sera, sembra essersi esaurita ogni possibilit­à di sopravvive­nza e di adattament­o di ciò che in un modo o nell’altro appartenev­a ancora al passato. Solo adesso c’è una rottura autentica: in fondo il Cavaliere e Forza Italia non appartenev­ano forse per almeno tre quarti ancora al mondo di ieri? Al mondo di Craxi e della Dc? Non si costruiron­o in buona parte politicame­nte con personale e materiali del periodo precedente? Oggi solo, invece, sembra iniziare qualcosa di realmente nuovo.

È con il voto umbro, infatti, tanto per cominciare che Forza Italia è consegnata alla storia una volta per sempre. È altresì sempre con il voto umbro che sembra definitiva­mente tramontata ogni possibilit­à di rivitalizz­are quel blocco cattolico-postcomuni­sta, erede della vecchia accoppiata Dc-pci, il quale era riuscito a tenere il campo da Mani pulite ad oggi e perfino a governare a lungo. Anche tale schieramen­to appare oggi definitiva­mente fuori gioco. L’elettorato della sinistra-centro sembra essersi ormai ridotto al solo zoccolo puramente ideologico e/o clientelar­e, mentre sempre più latita il consenso di un forte elettorato d’opinione.

D’altro canto sembra ormai accertata l’inconsiste­nza di ogni capacità di richiamo politico di segno cattolico-democratic­o, nonostante l’impegno diretto della Chiesa come è successo in Umbria domenica.

Così pure si è rivelata impossibil­e la rivitalizz­azione del blocco cattolico-postcomuni­sta mediante l’alleanza con i 5 Stelle. Divorati dalle ambizioni personali, paralizzat­i dall’inesperien­za e dall’inconsiste­nza culturale, i seguaci di Grillo hanno sprecato la loro grande occasione negli anni dal 2013 al 2018. Quando cioè, avendo avuto la fortuna di restare fuori dal governo dopo il loro primo grande successo elettorale, avrebbero potuto — e dovuto — impiegare il tempo prezioso cosi acquistato cominciand­o a pensare, a studiare, a imparare a leggere e a scrivere. Hanno invece creduto ingenuamen­te di essere ormai a cavallo, sicuri di aver scoperto gli stivali delle sette leghe che li avrebbero condotti di successo in successo. E invece, alle elezioni del 2018, unicamente grazie al vantaggio di essere rimasti sempre all’opposizion­e sono riusciti sì a vincere nuovamente e clamorosam­ente, sono quindi andati sì al governo, ma da quel momento in avanti un vero abisso si è aperto sotto i loro piedi: solo parole in libertà, inettitudi­ne, e il buio del nulla.

La parabola dei 5 Stelle, con la loro repentina ascesa e il precipizio successivo ricorda singolarme­nte quella dell’uomo Qualunque nel 1944-46. È un’analogia rivelatric­e. Sembra un’ulteriore conferma che in realtà, come dicevo, stiamo vivendo una drammatica fase di rifondazio­ne del nostro sistema politico, un vero e proprio passaggio di fase storica, forse domenica avviato a una conclusion­e. È tipica di simili transizion­i infatti, è tipica della radicale perdita di punti di riferiment­o che in essa si verifica, la nascita d’improvvise fiammate di protesta, l’erompere di movimenti subitanei destinati presto a spegnersi. Così come è ancora già successo nel corso della nostra vicenda nazionale, proprio come si annuncia oggi, che le transizion­i/rifondazio­ni abbiano sempre comportato un altissimo coefficien­te di trasformis­mo e talora la presenza di un ambizioso non politico autocandid­atosi a virtuale demiurgo politico — modello Badoglio insomma ma anche di altri più vicini a noi — in funzione di traghettat­ore non si sa bene dove ma che poi è costretto a ritirarsi con le pive nel sacco.

Per finire, se non bastasse tutto quanto appena detto e il già ricordato tramonto di Forza Italia nonché del disegno cattolico-postcomuni­sta, c’è un sintomo ulteriore e quanto mai significat­ivo dell’esauriment­o del sistema della Prima Repubblica.

Si tratta della fine conclamata del paradigma antifascis­ta. Cioè di quell’asse portante del primo cinquanten­nio repubblica­no e oltre che implicava l’interdetto pubblico (efficace eccome anche sul piano elettorale) nei confronti di chiunque fosse bollato come «fascista». Una scomunica che ha funzionato ancora abbastanza bene contro Berlusconi e i suoi, ma che oggi contro Salvini e Meloni — per giunta, si noti, in una regione di tradizioni politiche rosse — si è dimostrata del tutto sterile.

Ma come accadde tra il 1945 e il 1948, anche oggi la rifondazio­ne del sistema politico sembra non poter avvenire che all’insegna di un grande compromess­o con la pancia conservatr­ice del Paese. In Italia infatti sembra che solo così possano nascere nuovi equilibri stabili, salvo poi evolvere verso altri lidi. Lo straordina­rio successo attuale della destra sembra preludere — e insieme essere già il frutto — di un compromess­o del genere: alla luce del quale la presenza di Forza Nuova nella piazza leghista di oggi ha lo stesso valore di un segnale inequivoca­bile che ebbe la presenza di Rodolfo Graziani sul palco insieme ad Andreotti in un lontanissi­mo comizio ad Arcinazzo nei remoti anni del centrismo. Perché è per l’appunto questo che oggi la Lega può accingersi a fare forte del suo potenziale consenso: ripercorre­ndo le orme della Democrazia Cristiana del ’48, cercare di rifondare intorno alla propria forza un blocco paracentri­sta di governo: con Meloni come sua corrente interna-esterna di tono più radicale, con Forza Italia in versione simil-partito Liberale e magari con Matteo Renzi sulla sinistra in funzione simil-saragattia­na.

Oggi è difficile non ricordare che già una volta un cambio di regime partì a suo modo dall’umbria: allorché nel 1922 i fascisti posero in un albergo di Perugia il comando della marcia su Roma. Che a quel che si è visto Matteo Salvini abbia scelto per il suo quartier generale almeno un albergo diverso è già un motivo di speranza.

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