«Senza un comune sentire bisogna trarre le conseguenze». Renzi attacca: intesa sbagliata, lo avevo detto
ROMA La botta è stata così forte da far tremare le poltrone di governo. Dal leader del Pd all’ultimo dei sottosegretari, passando per ministri e padri nobili, i dem sotto choc si interrogano. Reggerà l’alleanza che sostiene Conte? Mesi fa la riflessione di Goffredo Bettini aprì la strada al governo e adesso l’ex parlamentare europeo è il primo a rimettere tutto in discussione. Descrive la coalizione come un campo «bombardato dalla conflittualità» e mette il Nazareno davanti alla scelta: «O si cambia registro, o si vota. La pazienza del più grande partito della sinistra non è infinita». Avvertimento rilanciato dal vicesegretario Andrea Orlando, che a sera sull’huffington Post chiede il congresso ed evoca le urne come «conseguenza» della débâcle umbra: «Se si va avanti così, sarà inevitabile che il Pd si ponga il tema
Il voto in Umbria 35,8 35 30 25 20
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di staccare la spina».
Dilemmi e ultimatum i cui echi sono arrivati a Palazzo Chigi, tanto che Conte ha parlato al telefono con Zingaretti. E anche se i rispettivi staff liquidano il colloquio come rapido e indolore, rimandando il confronto a un faccia a faccia, difficile pensare che alleanze e fiducia non siano stati al centro del dialogo. Zingaretti è preoccupato, a Facebook
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ha affidato un post durissimo in cui sfida Di Maio a ripensare il drastico no a nuovi accordi, dall’emilia-romagna alla Calabria: «L’alleanza ha senso solo se vive nel comune sentire delle forze che ne fanno parte, altrimenti sarà meglio trarne le conseguenze». Addio governo? L’ultima parola Zingaretti non la pronuncia, ma dice che la paura di Salvini non può essere il collante, né «aspettare le nomine degli enti per occupare poltrone».
I dem non ne possono più delle liti, sono stanchi e allarmati per i continui cambi di umore di Di Maio. Per Zingaretti è «inaccettabile» che un giorno si approvi la manovra e il giorno dopo la si rimetta in discussione. «Non si può governare tra avversari e nemici», magari augurandosi «la distruzione dell’altro». Il fuoco amico è partito, sospetti, accuse e recriminazioni sono i proiettili. Il tesoriere Zanda incalza Di Maio: «Se vuole la crisi, lo dica». Ma forse ad accarezzarla sono i dem, tanto che Guerini puntella Conte: «Il governo non è in discussione». Eppure Renzi rivendica di non aver messo la faccia sulla foto di Narni — definita «una genialata» — che per lui è il simbolo di «un accordo sbagliato». L’ex premier intona il ritornello «io lo avevo detto» e sbatte i suoi numeri in faccia a Zingaretti: «Quando ho lasciato la guida del Pd, governavamo 17 regioni su 21, ora sono 7». Franceschini però non cambia linea e boccia l’idea di andare divisi alle Regionali: «Non mi sembra particolarmente acuta». Come lui la pensa il governatore Stefano Bonaccini, che ha paura di perdere l’emilia-romagna e lancia appelli ai 5 Stelle e agli scissionisti di Italia viva. Fiato sprecato, per ora. I renziani rimasti (con il cuore) nel Pd addossano al segretario il peso di una rovinosa sconfitta. Dopo Marcucci, Anna Ascani sprona a «mettere da parte l’idea dell’alleanza strutturale con il M5S». E Matteo Orfini prevede che, andando avanti con «alleanze innaturali», il Pd perderà ancora.