I curdi: «Noi i primi a segnalare agli Usa la posizione del Califfo»
«Siamo stati noi curdi a segnalare agli americani per la prima volta agli inizi di marzo che Abu Bakr al Baghdadi era fuggito nella zona di Idlib», sostengono adesso i responsabili dell’intelligence di Rojava. La loro tesi è molto chiara e viene alimentata di ora in ora dalla necessità di segnalare la loro rilevanza di fronte al pericolo dell’attacco turco e la crescente presenza nella loro regione, sempre meno autonoma, di forti contingenti delle truppe del governo di Bashar Assad coadiuvati dai russi. «Durante le settimane della battaglia della cittadina di Baghouz lungo l’eufrate l’opinione più diffusa era che Baghdadi fosse fuggito in Iraq. Non sarebbe stato strano dopo tutto. Lui è iracheno e nelle regioni sunnite di Al Anbar, che confinano col la Siria anche in prossimità di Baghouz, ha ancora contatti e amicizie che possono garantirgli protezione e rifugio. Ma la nostra rete di contatti a Idlib è stata molto rapida a individuare il suo covo», ci dice un alto ufficiale dell’intelligence curda a Qamishli che esige si restare anonimo. Il suo racconto non è certo tenero con la Turchia, accusata di avere avuto un ruolo simile a quello del Pakistan nei confronti Osama Bin Laden. «Nel 2011 gli americani uccisero il capo di Al Qaeda nel suo covo a poche centinaia di metri dalle basi delle truppe scelte pachistane ad Abbottabad. Oggi scopriamo che Baghdadi stava nel villaggio di Berisha, proprio sul confine con la Turchia e in una zona controllata dai militari turchi», aggiunge.
In modo molto più ufficiale parla invece il 61enne Hakam Khallo, eletto nel Senato di Rojava con l’incarico di coordinare le relazioni tra i curdi e le altre comunità etniche o religiose. «Ovvio che noi curdi abbiamo avuto un ruolo centrale nel blitz. Da almeno 8 anni la nostra intelligence lavora spalla a spalla con quella americana. Una collaborazione che si è intensificata nella lotta contro l’isis a partire dall’autunno 2014. Baghdadi dopo avere perso l’ultimo pezzettino del suo Califfato a Baghouz quest’anno si è diretto a Berisha ben sapendo che all’occorrenza avrebbe trovato aiuti tra i gruppi jihadisti locali come Akhrar al Shams e Al Nusra. Ma soprattutto confidando che se braccato da vicino avrebbe potuto darsi alla macchia in Turchia», spiega.
Eppure, il successo della cooperazione curdo-americana viene ormai presentato come il canto del cigno. «L’invasione turca ha ormai ridotto del 75 per cento i nostri raid contro l’isis. Da gennaio avevamo compiuto 347 operazioni che avevano permesso di arrestate 476 pericolosi jihadisti», rivendicano i responsabili delle forze curde, lasciando intendere che la nuova situazione vanificherà la lotta contro ciò che resta dello Stato Islamico.