Tassi e stabilità, la doppia lezione lasciata in eredità
FRANCOFORTE Mario Draghi usa dire che un banchiere centrale non deve fermarsi mai. Nemmeno nel momento dell’addio, evidentemente: nel discorso di saluto finale che ha pronunciato ieri alla Banca centrale europea non ha concesso un minuto alla retorica del congedo; ha parlato solo di politica ai politici. Ha detto che, dopo otto anni di presidenza, si porta via innanzitutto due lezioni: e le ha proposte a chi gli succede, Christine Lagarde, e ai capi di Stato e di governo dell’eurozona che lo ascoltavano. Sono i due pilastri della saggezza di Mario Draghi.
La prima lezione è la costruzione di una banca centrale moderna, che non è un modo di dire. Fino a una decina d’anni fa — ha detto il presidente uscente della Bce — l’obiettivo era solo la lotta all’inflazione. Ma poi c’è stata una «inattesa inversione: le forze inflazioniste si sono rovesciate in deflazioniste». Ciò ha significato un «cambiamento di paradigma» per tutte le banche centrali dei Paesi avanzati: per la Bce ha voluto dire cercare la stabilità sia contro le pressioni sui prezzi verso l’alto che verso il basso. Con una serie di strumenti mai sperimentati prima: i tassi d’interesse negativi, gli acquisti di titoli sui mercati, la comunicazione anticipata delle mosse future della banca. Questa Bce moderna nata negli ultimi anni è la prima eredità lasciata a Lagarde, completa di uno staff che la accompagnerà nelle decisioni.
La seconda lezione riguarda il «predominio monetario», cioè l’obbligo della Bce di non sottomettere la politica monetaria a quella di bilancio dei governi, cioè di essere indipendente e non sostituirsi alle decisioni nazionali, per quanto possano essere deleterie. Questo va bene, ha detto Draghi, ma la politica monetaria da sola funziona meno di prima, dà ritorni minori per una serie di ragioni: se quella di bilancio «fosse allineata a essa» (cioè se i governi stimolassero l’economia) la Bce raggiungerebbe gli obiettivi più rapidamente e con minori effetti collaterali negativi. Draghi vorrebbe che quelle della banca centrale e dei governi fossero «politiche mutualmente allineate». Anche questo è un territorio nuovo, non facile perché si porta dietro il rischio di compromessi, i quali per una banca centrale potrebbero essere disastrosi, per quanto in buona fede. Pure questa è un’eredità a Lagarde. La quale – è già chiaro oggi – farà un punto centrale del suo programma l’obiettivo di convincere i governi a politiche di bilancio che favoriscono la crescita (così come a riforme strutturali con lo stesso scopo, ha affermato ieri). Con gli occhi asciutti si va dunque, dal 1° novembre, verso la Bce del dopo Draghi. Sarà diversa: un altro territorio nuovo. Ieri, Lagarde ha citato «c’è un crack in ogni cosa, è da lì che entra la luce»: era la prima volta che l’inno di Leonard Cohen entrava in una banca centrale.
I governi
L’obiettivo di Lagarde: convincere i governi a politiche di bilancio per la crescita e le riforme