Corriere della Sera

Ragazzi, il futuro non è virtuale

Attaccati ai telefoni, connessi al web tanti giovani vivono in un mondo di relazioni sempre più «digitali» Ma è possibile essere felici da soli?

- (Getty)

● È autore di varie opere, tra le quali «Elogio dello Stato a pendolo. Stato e mercato nel XXI secolo» (2009) e «L’etica fiscale ed economica di Ezio Vanoni» (2019). Insegna Etica ed Economia allo Iulm di Milano

L’incertezza di una generazion­e».

Dipendere da Internet, annota Del Debbio, è come dipendere dall’alcol, dalla droga, dal gioco d’azzardo. Con una differenza fondamenta­le. L’alcol costa; magari poco, ma costa. La droga costa molto. Il gioco d’azzardo, per i ludopatici compulsivi, costa moltissimo. Internet è gratis. È stato notato che, quando un prodotto è gratis, in realtà il prodotto sei tu. Ma questo sembra lasciare del tutto indifferen­ti i giovani italiani. E non soltanto loro.

Riconoscia­molo: anche per noi, «immigrati digitali» come ci definisce l’autore, noi che non ci siamo caduti dentro da piccoli come Obelix nella pozione magica, soffriamo da dipendenza da cellulare. Lo guardiamo ogni secondo, ci alziamo di notte, controllia­mo di continuo messaggi, mail, Whatsapp. Figurarsi i nativi digitali, che hanno imparato a usare lo smartphone o il tablet prima di imparare a leggere e a scrivere. Il rischio è che a leggere non imparino mai; o lo considerin­o un’abitudine desueta, d’altri tempi, riservata a pochi, come andare a cavallo o giocare a canasta. Il telefonino infatti non serve loro per telefonare; è un trampolino per gettarsi nel mare vasto della Rete. Dov’è in agguato Narciso. I pericoli non sono soltanto i violenti, gli adescatori, gli spacciator­i, i bulli che mettono in rete le loro malefatte, e mettiamoci pure gli influencer che fanno pubblicità a pagamento senza dirlo; il pericolo è dentro di noi. È l’individual­ismo che non diventa vitalismo ma narcisismo: attitudine sterile per definizion­e. I nostri figli, scrive Del Debbio, «rischiano che, in un numero di anni che si contano sulle dita di una mano, le loro menti, i loro cuori, i loro corpi e le loro anime si chiudano nei confronti della vita reale e si aprano solo nei confronti della vita virtuale. Rischiano, in altre parole, di disamorars­i della vita vera e di innamorars­i della vita artificial­e, quella dei social, fino ad ammalarsen­e».

L’obiezione viene spontanea: si stava forse meglio quando la Rete non esisteva e i telefoni (fissi) erano solo per i ricchi? Quando partire per l’america significav­a morire agli occhi di padri, mogli, figli? Del Debbio contrappon­e due storie esemplari. Quella di Ermanno, emigrato negli Stati Uniti nel secolo scorso, e quella di Vittorio Emanuele, nativo digitale. Ermanno partì da Vico Pancelloru­m, un piccolo borgo sull’appennino sopra Lucca, che l’autore conosce bene. Un paese spopolato dall’emigrazion­e. Prima di mettersi in viaggio per il nuovo mondo, gli abitanti andavano in chiesa a pregare il santo patrono, san Paolo. Poi si inginocchi­avano dietro la sua statua lignea, la incidevano con un coltellino, e ne ricavavano una piccola scheggia che custodivan­o in un astuccio. Stringendo nel pugno quella scheggia, Ermanno arrivò a piedi al porto di Genova, vide il mare per la prima volta, sopportò 30 giorni di burrasca, affrontò gli umilianti controlli di Ellis Island e l’impatto con i nascenti grattaciel­i di New York. Quella scheggia gli ricordava chi era, in cosa credeva, da dove veniva.

Vittorio Emanuele ha una qualità della vita incomparab­ile con quella di Ermanno. O, meglio, la avrebbe. Perché Vittorio Emanuele non vive. Se non virtualmen­te. È sempre connesso. A pranzo lascia il cellulare acceso. Il pomeriggio è per i videogame, in contatto con coetanei malgasci di cui non sa nulla, i problemi i sogni le paure; sa solo che giocano meglio di lui, e non riesce mai a batterli. A cena il padre gli impone di lasciare il cellulare in stanza. Per lui, una tortura: come smettere di correre, bruciare di sete e non avere l’acqua. La notte è per gli influencer. Lui ne segue, anzi idolatra uno in particolar­e: Heaven Now; il paradiso, ora. Motto: «Si può essere felici anche da soli, nella propria cameretta. Basta far sapere agli altri che ci siamo e sapere della vita degli altri. Stay linked!». Ma si può crescere così? Pensando i pensieri di un altro? Senza sapere chi si è, da dove si viene, cosa si vuole? Rischiando ansia, manie, depression­e, vere e proprie malattie?

C’è un solo rimedio a tutto questo, scrive Del Debbio nell’ultimo capitolo. L’educazione. Il dialogo. È fondamenta­le che le generazion­i si parlino. Che i padri e i nonni affrontino i figli con la pazienza della goccia che scava la roccia. Anche a costo di rinunciare loro per primi a dipendere dalla rete e dai cellulari. I ragazzi vanno accompagna­ti nel percorso di vita: lo studio, il volontaria­to, la ricerca di un lavoro, che spesso li spaventa, rappresent­a il loro timore non detto, quasi un mostro che li induce a chiudersi in stanza con lo smartphone e l’influencer. Non è facile, anzi è difficilis­simo; ma non c’è altra soluzione.

Il pericolo è che i nostri figli si disamorino della vita vera e si innamorino di quella artificial­e, dei social, fino ad ammalarsi

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La quota di adolescent­i italiani che si è iscritta a un social network quando aveva meno di 14 anni
Quattro ragazzi con lo smartphone in mano fotografan­o la Basilica di San Marco. Sono andate in pensione le vecchie macchine fotografic­he, si fa tutto con il telefonino
A Venezia Per cento La quota di adolescent­i italiani che si è iscritta a un social network quando aveva meno di 14 anni Quattro ragazzi con lo smartphone in mano fotografan­o la Basilica di San Marco. Sono andate in pensione le vecchie macchine fotografic­he, si fa tutto con il telefonino
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