Battaglie e sofferenze degli italiani Un secolo di guerre dietro le spalle
Dal 1848 al 1945 il nostro Paese ha affrontato spesso la prova delle armi Le lotte per l’indipendenza, le imprese coloniali, i due conflitti mondiali
Quanti «futuri» sono stati rubati nell’italia e nell’europa del Secolo breve, il Novecento, inaugurato da due colpi di pistola sparati a Sarajevo nel 1914 e conclusosi, trent’anni fa, con la prima picconata a un Muro che spezzava in due Berlino, città incastonata nel cuore del continente? Furono milioni i morti e milioni i sopravvissuti, feriti nel corpo e nello spirito, con un desiderio di vendetta represso finché un demagogo non lo trasformò in un’ondata d’odio e in nuovi conflitti.
Per millenni le guerre sono state raccontate con toni epici, consegnando alla storia, con l’appellativo di «grandi», coloro che le avevano scatenate, combattute, vinte. Persino la letteratura occidentale fece capolino con il massacro che distrusse la città di Troia. Giulio Cesare entrò nel mito narrando personalmente le proprie imprese condotte a fil di spada. Napoleone insanguinò l’europa facendo credere di rincorrere un anelito di libertà.
Noi italiani, di guerre combattute nel continente ce ne siamo lasciate sfuggire ben poche. Spesso fratricide, di città contro città, schierandoci con questo o quel dominatore, ridotti a colonie da depredare, fino a quando ne abbiamo dichiarate tre, nell’ottocento, per realizzare il processo di indipendenza nazionale divenuto improrogabile. Le combattemmo con astuzia, tessendo alleanze, costruendo il consenso che permise la formazione del regno sotto l’egida dei Savoia. Governava Camillo Benso di Cavour, che non si distinse con la spada sul campo, bensì con il fioretto nei consessi diplomatici. Furono guerre d’élite, antiche, combattute da volontari, e portarono al consolidamento delle terre conquistate attraverso plebisciti. Eppure, anche in quelle, sacrosante nella logica dei tempi, vi furono molte ombre.
Da allora, le guerre d’italia sono cominciate tutte con il piede sbagliato. A partire da quella in Africa, a fine Ottocento, con la tragica sconfitta di Adua, e dalla velleitaria italo-turca, del 1911, per la conquista della quarta sponda, la Libia. Poi entrammo nella Grande guerra, l’anno successivo allo scoppio, presentandola, attraverso la propaganda, alla stregua di una nuova guerra d’indipendenza, grazie alla quale, con pochi sacrifici, avremmo liberato Trento e Trieste. La sceneggiata allestita per il popolo durante le «radiose giornate» di maggio, però, faceva seguito a una decisione già presa, a un trattato segreto firmato a Londra in aprile. La Corona d’italia aderiva alla folle resa dei conti programmata da pochi sonnambuli che muovevano le pedine dalle retrovie: giocavano una partita eccitante dalle loro sfarzose residenze e, se solo mettevano piede ad alcune miglia dalla linea del fuoco sotto a una tenda da campo, si guadagnavano l’epiteto di «sovrani-soldato».
Per i conflitti successivi, dall’invasione dell’etiopia all’entrata in guerra al fianco della Germania, non vi sono più scusanti patriottiche. Furono le guerre di Mussolini, non degli italiani, di un uomo a cui venne concesso di governare il Paese come dittatore assoluto. Non furono nemmeno le guerre dei suoi gerarchi: durante l’ultima seduta del Gran consiglio nel 1939, a esclusione di Farinacci, tutti gli alti papaveri del regime si dichiararono per la non belligeranza. Anzi, Italo Balbo, non certo un democratico, prese la parola per sostenere che, qualora fossimo stati trascinati in un conflitto, la nostra parte doveva essere quella dei francesi e degli inglesi e non quella del fanatico Adolf Hitler.
Come andò a finire lo sappiamo con profusione di dolorosi particolari. Il problema è che, dopo oltre settant’anni di pace, pur con l’angoscia della catastrofe nucleare alimentata dalla Guerra fredda, tutte queste vicende di dolore, sopraffazione e devastazioni sono diventate un’eco lontana, come se fossero accadute ad altri e in altri mondi.
Non è a caso che il «Corriere della Sera» abbia deciso di raccogliere in una collana i testi fondamentali, scritti dai più importanti storici, per capire che cosa siano stati, per gli italiani, cent’anni vissuti con le armi in pugno.
Il primo volume è una pietra miliare della nostra storiografia, firmato da Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La Grande guerra 1914-1918. Vi è un capitolo che da solo basta a farci rabbrividire, a risvegliare le coscienze per comprendere che cosa abbia rappresentato per i nostri nonni e per i nostri padri la follia dei demagoghi che consideravano l’uomo uno strumento da utilizzare per soddisfare i propri interessi. È quello dedicato alla vita di trincea, vissuta come animali in attesa del macello: da un momento all’altro poteva arrivare l’ordine di balzare fuori e di lasciarsi falcidiare da una mitraglia. Anche senza motivo. Una parola sbagliata, un tentennamento e si finiva davanti al plotone d’esecuzione, fucilati anche senza colpa per l’abominevole pratica della decimazione voluta dal capo di stato maggiore Luigi Cadorna. Gli uomini, i cittadini del giovane Stato, erano diventati «carne da cannone». Vigeva l’«etica della rassegnazione», avallata anche dai cappellani. Questa è la guerra.
L’intervento del 1915 non aveva il consenso popolare. Fu deciso con un patto segreto
Le offensive sul Carso logorarono i soldati che operavano in condizioni terribili