«Unisco Hoffman e Servillo nel thriller delle mie paure»
Carrisi regista: claustrofobia e terrore del buio in «L’uomo del labirinto»
N on chiudete dietro a una porta le paure patite da bambini. Vi aiutano a guardarvi dentro e affrontare l’età adulta. Parola di Donato Carrisi che ha costruito la sua carriera di narratore — scrittore, sceneggiatore, quindi regista con il fortunato esordio La ragazza nella nebbia — pescando a piene mani dai suoi turbamenti infantili. Che nel caso del nuovo film — L’uomo del labirinto, tratto dal suo ultimo romanzo, prodotto da Gavila e Colorado, in sala da domani in 400 copie con Medusa — rappresentano l’ossatura della storia: «Sono partito dalla mia claustrofobia. A cui ho aggiunto la mia paura del buio. Seppelliamo le cose che ci spaventano nei nostri personali labirinti. A volte spuntano nuovamente davanti a noi e sono lì, più vive e concrete che mai. La paura per me è uno strumento per entrare nella mente dello spettatore, è un sentimento essenziale come l’amore».
Per la sua opera seconda, un thriller vintage ispirato, spiega, ai grandi thriller anni Novanta «come Il silenzio degli innocenti, Seven o I soliti sospetti», ha voluto nuovamente al fianco Toni Servillo. Ancora in un ruolo da detective. Ma, dice, molto particolare: «Bruno Genko sa di essere vicino alla morte, i medici gli hanno dato solo due mesi di vita. Vuole trovare la soluzione di un vecchio caso irrisolto. La sua paura è: cosa c’è alla fine del labirinto?».
Per trovare la risposta dovrà
Sul set Valentina Bellè (27 anni). In alto, Dustin Hoffman (82) e Toni Servillo (60) impegnarsi in una gara contro il tempo con il dottor Green, il «profiler» che sta aiutando una giovane donna, Samantha Andretti (Valentina Bellé), rapita da un uomo misterioso quindici anni prima, a riannodare il bandolo della sua vita interrotta. E dare un volto al cattivo, Bunny, protetto da una maschera da coniglio con due lampadine rosse a forma di cuore come occhi.
Non è stato difficile, racconta Carrisi, convincere Dustin Hoffman a interpretare il dottore. «È bastato raccontargli la storia e dirgli che ci sarebbe stato Toni Servillo. Ha accettato senza esitazioni. Gli ho raccontato che anni fa scrissi la sceneggiatura di un film e il produttore mi disse che l’avrebbe fatto solo con Dustin Hoffman. Eri nel mio destino, ho scherzato. E lui: “Now you can call me Dustino”». Felicissimo anche di girare a Cinecittà. La sua prima volta. «È entrato al Teatro 18 come entrasse in una chiesa. Mi ha confessato di avere un grande cruccio: aver rifiutato un ruolo che gli offrì Fellini.
Gli hanno preparato, come a Toni, un camerino speciale con memorabilia dei set di Cinecittà». E proprio nel bar degli studi di via Tuscolana è ambientata l’unica scena in cui i due, dopo aver duellato a distanza, finalmente si incontrano. «Non era nel romanzo e neanche nella sceneggiatura, ma non potevo negare al pubblico il piacere di vederli insieme. Toni è il tassello del progetto, Dustin mi ha fatto il regalo di credere nel film e in tutte le persone che erano sul set. A vincere, però, vedrete, è Valentina Bellé. Non esistono storie senza donne».
L’altro ingrediente essenziale esce, ancora, dall’album dei ricordi dello scrittore pugliese: il coniglio. «Quello di Alice nel paese delle meraviglie della Disney, un vero horror che mi ha terrorizzato da bambino, così come Harvey, l’amico di James Stewart. Volevo creare una sorta di minotauro per rievocare quelle mie paure. Il coniglio sembra un animale mite, così è stato rappresentato nell’ultimo secolo, ma nell’antichità era un animale magico guardato con sospetto per la sua velocità e i suoi scatti imprevedibili. Quando ho visto il film finito sono rimasto scioccato».
Ora aspetta la reazione del pubblico. Dopo gli incassi e il David di Donatello del primo film sa bene che le aspettative sono alte. Intanto, racconta, ha finito il nuovo romanzo. «La casa delle voci: una storia di bambini, fantasmi e malattia mentale, sarà in libreria in dicembre».