L’uomo che restituisce una vita agli scarti del nostro quotidiano
Yosuke Bandai e il rispetto (tutto giapponese) per i rifiuti
Avolere semplificare, potremmo attribuire a Yosuke Bandai, fotografo trentanovenne, il titolo di «Banksy del Sol Levante»: come l’artista britannico, evita (per quanto possibile nell’era di Instagram) di mostrare il suo volto agli obiettivi altrui; e le sue opere — forme e figure costruite da rifiuti trovati per caso — appaiono improvvisamente su una roccia che guarda un lago alpino, in un campo di grano, nel profondo di un bosco, in un sottoscala, davanti a una saracinesca.
Yosuke Bandai (tra i protagonisti di Foto/industria 2019) non è tuttavia il rappresentante orientale dell’espressione artistica inventata, in Occidente, dal re della street art: perché Bandai non vuole dirci nulla, soprattutto non vuole — almeno non apertamente — che le sue installazioni, impresse e rese eterne dallo scatto di una reflex, siano strumento politico. Piuttosto, il suo geniale recupero di rifiuti, grandi e piccoli, che nelle sue mani diventano «nuovi» oggetti, non è altro che una rivisitazione dell’antica anima nipponica.
Un’anima che vive in simbiosi
Lavorazioni industriali Nella foto sopra, André Kertész American Viscose Corporation Pennsylvania, 1944. Sotto, uno scatto di Yosuke Bandai, Senza titolo, 2016 con l’ambiente e che, attraverso lo Shinto, attribuisce uno spirito vivo (kami) a ogni singolo atomo dell’esistente. Ecco perché i rifiuti non smaltiti (non trasformati) nelle sue mani riprendono un senso, acquisiscono una nuova vita in rapporto ai luoghi dove (ri) appaiono.
Sono robot o figure vagamente umane ma anche forme astratte che, volendo, possono essere frammentate in ognuno dei componenti raccattati dal «creatore» nelle vicinanze. Arte povera 2.0? Forse. Ma anche e soprattutto un gesto religioso che parla ai cuori dei giapponesi e che i giapponesi possono intendere a prima vista: perché parla del loro rapporto con il mondo esteriore.
D’altro canto, nulla nell’universo shintoista, neppure un sasso, «nasce» per caso. Dunque rispettare il diritto all’esistenza degli oggetti scartati dalla moderna società post industriale — agli occhi di Bandai — acquisisce un afflato devoto. Anzi: sacro.
Nato nel 1980 nella prefettura di Shimane, nel Sud del Giappone, l’artista-fotografo vive e lavora a Tokyo, megalopoli attentissima a riciclare i rifiuti e tuttavia luogo talmente affollato da garantire al «creatore» accesso pressoché inesauribile a quegli scarti che nelle sue mani diventano forme del possibile. «Io — ha spiegato Yosuke Bandai in una rara intervista data al sito giapponese Newfave — utilizzo gli scarti per parlare all’uomo, alla nostra civiltà: chi siamo, cosa stiamo diventando. Cerco di affermare, sforzandomi di trovare una poetica, la fuggevolezza della vita».
Andando oltre, e richiamando Norinaga Motoori (1730-1801) un importante studioso del periodo Edo, Bandai approfondisce la relazione tra pensiero e oggetto, secondo una riflessione che torna sovente nella filosofia orientale. «Pensare a una cosa — dice l’artista — significa interagire con questa cosa; di più: ti porta a rinunciare al tuo io per essere l’oggetto. Un’idea che mi ha colpito nel profondo». Ormai un personaggio affermato nel Sol Levante, Bandai ha inaugurato la sua prima personale nel 2006.
Oggi ribadisce che «assemblare forme scegliendo con cura tra quanto è stato gettato via, perché giudicato inutile, mi aiuta a immaginare una connessione con l’universo, in uno stato atemporale che talvolta rasenta la trance».