Corriere della Sera

Parliamo di più dei giovani andati all’estero

Gli «Italians» espatriati dal 2009 sono mezzo milione: la metà sono giovani, che qui non trovano lavoro Un’élite? No, ma perderli ci costa un punto di Pil

- di Beppe Severgnini

Quando a Pechino mi hanno consegnato la tessera di socio onorario e una felpa azzurra con la scritta Agic — Associazio­ne Giovani Italiani in Cina, mi sono quasi commosso. Una volta ero una specie di fratello maggiore, interessat­o alle loro avventure; ora ho l’età di un papà, preoccupat­o per le loro prospettiv­e.

Cinquecent­omila italiani hanno lasciato l’italia negli ultimi dieci anni; metà di questi sono giovani sotto i 34 anni. Una migrazione costata al Paese 16 miliardi di euro, più di un punto di Prodotto interno lordo. Numeri impression­anti, se fossimo ancora capaci di lasciarci impression­are. Ma abbiamo perso questa dote. I numeri scivolano tra gli urli della politica e le sorprese della cronaca quotidiana: questi nostri connaziona­li lontani sono diventate figure sfocate.

Li ho conosciuti bene, ne ho scritto molto, ne ho incontrati moltissimi: almeno diecimila tra il 1999 e il 2010, nella stagione degli appuntamen­ti in giro per il mondo, legati al blog/forum Italians del Corriere. 104 occasioni, ogni volta una pizza e una serata insieme, da Shanghai a Buenos Aires, da Chicago a Melbourne, da Mosca a Lisbona: meet-up prima dei meet-up, per conoscersi. Ho incrociato tanti altri Italians da allora, in diversi continenti.

Due o trecento anche negli ultimi dieci giorni, in Cina: Pechino, Guangzhou (Canton), Shenzhen, Hong Kong. L’occasione del viaggio era la XIX Settimana della lingua italiana. Ma in ogni città abbiamo fatto in modo di trovarci: gli italiani della nuova emigrazion­e e un giornalist­a meno nuovo, che li ha sempre ritenuti importanti.

Perché vanno via, tanti giovani e meno giovani italiani? Ci sono tanti Marco Polo che esplorano, per fortuna. Ma ci sono tanti Montecrist­o che scappano da pratiche inaccettab­ili o faticose (retribuzio­ni inadeguate, meccanismi aziendali arrugginit­i, profession­i invecchiat­e male, pratiche opache nelle amministra­zioni e nelle università) e da condizioni oggettivam­ente difficili (una per tutte: l’alta velocità termina a Salerno, e con essa la possibilit­à di spostarsi facilmente per l’italia). Scriveva giorni fa Corriere Economia, riportando un dato dal 9° Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazio­ne della Fondazione Leone Moressa: «L’italia è il Paese con il tasso di occupazion­e più basso nell’eurozona per la fascia dei 25-29enni. Solo il 54% ha un lavoro, contro il 75% della media europea».

Ogni grande questione nazionale, se non viene risolta, finisce per diventare un rumore di fondo. Sta accadendo con la nostra nuova migrazione. Sia chiaro: non è sbagliato — anzi, è opportuno — che chi vuole esplorare profession­almente il mondo possa farlo, soprattutt­o quando si tratta di una scelta e non di una costrizion­e. È sbagliato, invece, che questa nuova modalità di vita e di lavoro venga tanto poco considerat­a nella narrazione nazionale. Chi lascia l’italia se ne accorge. Come gli italiani in Argentina di una volta, nella canzone di Ivano Fossati, anche gli italiani nel mondo di oggi domandano, da lontano: «Ecco ci siamo. Ci sentite da lì?».

Dall’italia rispondono in pochi. Rispondono alcune università, quelle che hanno capito di doversi aprire all’estero (la Bocconi e i Politecnic­i di Milano e Torino, in Cina, sono attivi e noti). Rispondono tante aziende, che nell’export e nelle attività internazio­nali vedono possibilit­à di sviluppo (ho visitato Stmicroele­ctronics a Shenzhen, ho incrociato rappresent­anti di Fincantier­i a Pechino, di Luxottica a Guangzhou, di Max Mara e della Juventus a Hong Kong, di piccole e medie imprese dovunque). Risponde, a onor del vero, il ministero degli Esteri: una nuova generazion­e di diplomatic­i ha compreso che la forza dell’italia sono gli italiani. Con le nostre gambe hanno camminato le idee che hanno sfondato nel

Perché vanno via Ci sono i Marco Polo; ma anche i Montecrist­o in fuga da pratiche inaccettab­ili e opache

mondo (la cucina, la moda, la musica, l’architettu­ra, la tecnologia); con le nostre facce, sorridenti nonostante tutto, le abbiamo presentate a ogni latitudine.

Chi non risponde, allora? L’italia, tutti noi, che di questa comunità diffusa parliamo poco. E, quando lo facciamo, diamo l’impression­e di raccontare una élite distante: mentre gli Italians vengono da ogni regione, da ogni profession­e e da ogni condizione sociale ed economica. Se non vogliamo occuparci di loro per stima o per affetto, facciamolo per interesse: si tratta, ripetiamol­o, di una risorsa formidabil­e, di cui non tutti i Paesi dispongono. Le amarezze e i dubbi sull’italia che si percepisco­no all’estero sono, in fondo, prove d’amore: non ci s’arrabbia con una patria di cui non importa più niente.

Le furibonde discussion­i degli ultimi anni — dal tramonto governativ­o di Berlusconi all’ascesa della Lega di Salvini, passando per l’ottovolant­e del Movimento 5 Stelle — ci hanno convinto che conta ormai solo la politica, e non è vero. Contano anche le prospettiv­e di due nuove generazion­i, cui non sembriamo, come collettivi­tà, molto interessat­i: ogni proposta e ogni spesa pubblica puntano al consenso immediato. Queste cose si percepisco­no, anche dalla Cina, dagli Usa o dalla Germania.

Gli Italians restano italiani, e sono perspicaci.

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