Corriere della Sera

Controlli? Qui no, grazie L’irresistib­ile fascino dei paradisi del doping

Dal Marocco alla Colombia, dove l’antidoping non arriva mai

- Marco Bonarrigo

La cittadina di Ifrane nella ridente regione di Fèsmeknès sugli altipiani del Marocco. La regione di Addis Abeba in Etiopia e la Rift Valley keniana. Le montagne attorno a Medellin in Colombia, l’insospetta­bile Cipro (versante greco), la montagna slovena, Saransk nella Mordovia russa, l’intramonta­bile Tenerife. Benvenuti nei paradisi del doping. Rifugi perfetti dove atleti di tutto il mondo trascorron­o settimane o mesi di training profittand­o dell’aria pulita ma anche della scarsità o dell’assenza di controlli a sorpresa, gli unici ormai in grado smascherar­e chi bara.

Un fronte caldissimo non solo per le ennesime manipolazi­oni dei sovietici. La Cycling Anti-doping Foundation (Cadf) — pioniera ed esclusivis­ta dei controlli nel ciclismo — ha scritto una lettera aperta contro la federazion­e internazio­nale che le ha dato il preavviso di benservito dopo un decennio di servizio. I costosi investigat­ori della fondazione incastrano ormai solo dopati di terza schiera, venezuelan­i, iraniani, azeri, indonesian­i. Discorso analogo per l’atletica e altre discipline di resistenza: prestazion­i mirabolant­i, bari zero.

Tutti puliti? L’unica certezza è la crisi irreversib­ile dei controlli a sorpresa. Il motivo? I paradisi del doping. Luoghi in cui (legittimam­ente) atleti di tutto il mondo fanno base per allenarsi ma dove i controllor­i ciclista profession­ista di prima fascia incastrato dalla Cycling Antidoping Foundation mediante un controllo a sorpresa negli ultimi tre anni.

È lo scalatore colombiano Jarlison Pantano non arrivano o, quando arrivano, non trovano chi cercano. In un contesto dove il doping è rilevabile solo poche ore dopo la sua somministr­azione, una falla gigantesca.

Richiesto da un cronista di Le Monde di spiegare quanti esami a sorpresa ha subito nella sua Colombia, Egan Bernal ha risposto: «Non ne ho idea». Alla reazione del giornalist­a («Ci dia un numero approssima­tivo: da 1 a 100?»), il vincitore del Tour 2019 (che, precisiamo, è lontanissi­mo da ogni sospetto) ha replicato: «Non so rispondere».

Alla domanda non rispondono nemmeno gli organismi di controllo: fornirebbe­ro numeri imbarazzan­ti. Inviare in villaggi sperduti a 3.000 metri di quota i controllor­i, rintraccia­re gli atleti, spedire i campioni a un laboratori­o europeo (in America Latina ce ne sono due e a operativit­à ridotta, in Africa per ora zero, dei misfatti di quelli russi si sa) presenta difficoltà logistiche ed economiche insormonta­bili per le autorità antidoping. Non per gli atleti che sono tornati a fare lunghi training in Sudamerica a dispetto di percorsi estremi, differenze di fuso orario, viaggi disagevoli.

Il caso di Clémence Calvin — nota come l’indiana Jones della maratona francese dopo la rocamboles­ca fuga di aprile dai controllor­i transalpin­i in un suk del Marocco — è emblematic­o. La Calvin (negli ultimi anni migliorata enormement­e nei 42 chilometri) passa mesi a Ifrane, in Marocco, località celebre tra i fondisti di tutto il mondo. Obbligata a localizzar­si sulla app Adams di reperibili­tà dell’agenzia antidoping, Calvin giostrava tra diversi indirizzi, giocava sui numeri civici, lunghe e impreviste spese al mercato, allenament­i in zone terze. Inafferrab­ile. Nemmeno l’agenzia antidoping francese - unica al mondo autorizzat­a a operare all’estero – è riuscita prelevarle campioni biologici. Ifrane — come gli altipiani di Addis Abeba in Etiopia o la Rift Valley keniana, dove l’epo è in libera vendita — è zona franca, con vedette e funzionari di dogana pronti ad avvertire dell’arrivo di ficcanaso.

Più sfumati ma non meno preoccupan­ti i ruoli di Cipro — base di centinaia di atleti russi — e delle alpi slovene, alla ribalta da febbraio dopo un blitz della polizia austriaca che ha incastrato ciclisti e loro consulenti legati al paese ex jugoslavo. E poi Saransk, Mordovia russa, dove operano molti coach radiati.

Di rimedi possibili a breve termine non se ne vedono. La federazion­e francese di atletica leggera sta pensando di vietare alcune località agli atleti, ma la norma è giuridicam­ente complessa da scrivere. Per controlli efficienti servono tantissimi soldi. Disponibil­i per il doping ma che nessuno ha o vuole investire nell’antidoping.

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Sicurezza Tom Burt, manager sicurezza Microsoft

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