Quando Berlinguer si schierò con la Nato
L’intervista al «Corriere»: in quel momento non realizzai la portata di quelle parole
Intervistare Enrico Berlinguer era un affare di Stato. Il leader del Partito Comunista Italiano non concedeva quasi mai dei colloqui ai giornalisti.
ASBARRARE il passo ai quotidiani italiani c’era un cerbero che nessuno poteva tagliare fuori. Parlo di Antonio Tatò, detto Tonino, il capo dell’ufficio stampa del partito e segretario di Berlinguer.
Nato a Roma nel 1921, Tatò era uno dei fondatori del Movimento Cattolici comunisti. Un comunista al mille per mille che aveva adottato re Enrico. Era un signore robusto, ma asciutto, dal profilo a metà tra il barbiere di lusso e il centurione romano. Capelli neri e coperti di brillantina e le sigarette sempre a portata di mano. Alberto Ronchey, giornalista sempre informato e spiritoso, lo aveva battezzato Suor Pasqualina. Come la monaca che si era occupata di Pio XII.
Tatò si comportava da guardiano di tutta sicurezza e sbarrava il passo a chi cercava di avvicinare il compagno segretario. Chi voleva intervistare Enrico doveva portare a Tonino un elenco preciso delle domande da rivolgere al leader. Se lui non le gradiva, addio intervista!
Nel 1976 avevo fatto per conto del Corriere una lunga inchiesta sul Pci, poi ripubblicata da Mondadori nel 1982 in un mio libro intitolato «Ottobre addio, viaggio tra i comunisti italiani». A conclusione di quell’inchiesta, domandai a Tatò di intervistare Berlinguer. Lui mi replicò: «Portami le domande che intendi rivolgere al segretario e ti farò sapere». Gliele portai e Tonino non le gradì del tutto, ma non mi fece cambiare programma. E così il venerdì 11 giugno di quello stesso 1976 venni ammesso nel santuario di Re Enrico.
La prima cosa che notai fu l’aspetto del segretario. A 54 anni sembrava un ragazzino appena un po’ invecchiato. Imperturbabile, parlava a voce bassa. Fumava una Turmac dopo l’altra. E si teneva su bevendo whisky con poca acqua aggiunta. Mi accolse con una cortesia tra il timido e il freddo e, tra una risposta e l’altra, mi regalò una pepita d’oro.
Sotto l’occhio vigile di Tatò che mostrava di non gradire tante delle domande che facevo, Berlinguer affermò che si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della Nato che sotto il Patto di Varsavia. Spiegò: «Io sento che, non appartenendo l’italia al patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi. Tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del patto Atlantico, patto che noi non mettiamo in discussione, il diritto dell’italia di decidere in modo autonomo del proprio destino».
Dopo tanti anni, confesso che lì per lì non mi resi conto della portata politica delle parole sulla Nato e il Patto di Varsavia. Chiesi a Berlinguer: «Lei mi sta dicendo che il socialismo nella libertà sarebbe più realizzabile nel sistema occidentale che in quello orientale?».
Re Enrico rispose: «Si, certo. Il sistema occidentale offre meno vincoli. Però, stia attento. Di là, all’est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà. Riconosco che da parte nostra c’è un certo azzardo a perseguire una via che non piace né di qua né di là...».
Temevo che, nel rivedere l’intervista, Berlinguer o Tatò ne avrebbero smorzato la portata. Invece al testo fu aggiunto soltanto un aggettivo che non rammento e stampato in corsivo. La sua non era soltanto lealtà verso l’intervistatore. Il segretario del Pci aveva deciso da tempo di pronunciare quel giudizio e ne aveva valutato sino in fondo tutto l’azzardo, tutta la dirompente carica di novità. Così, quando tentai di impedire a Berlinguer una correzione non ricordo più su quale risposta, lui mi zittì sorridendo: «Non protesti, lei ha già avuto parecchio di più di tutti i giornalisti che sono venuti a trovarmi in questi giorni. E quello che ha avuto è molto!».
L’intervista uscì sul Corriere il 15 giugno 1976 e fece un gran rumore sia in Italia che in Europa. E ha continuato a farne ancora tanti anni dopo. Fino a quando, il 24 maggio 2000, a 24 anni dalla mia intervista, citando uno studio di uno storico sulla base di non meglio chiariti documenti conservati presso l’istituto Gramsci, l’unità non uscì con un articolo che affermava che l’urss era al corrente dello strappo di Berlinguer.
Intervistato in proposito nel mio ufficio di condirettore di Claudio Rinaldi all’espresso, contestai allora, e la penso ancora così, che Berlinguer fosse il ventriloquo di Mosca. Metterei ancora adesso le mani sul fuoco per sostenere che le parole consegnate al sottoscritto erano del tutto impreviste e imprevedibili. A confermarlo ci fu la reazione contraria di una parte del partito. Per primo Armando Cossutta che sbottò: «Questa cosa a Enrico gliela farò pagare».
Durante tutte le tre ore del nostro colloquio, Berlinguer era rimasto teso come una corda di violino. Prima di iniziare invece mi aveva accolto come un parente che incontra un lontano cugino. Mi aveva chiesto di mio padre, di mia madre, dei loro sacrifici per farmi studiare e, infine, della mia laurea all’università di Torino con una tesi dedicata alla guerra partigiana tra Genova e il Po. Mi aveva ascoltato con un’affettuosa attenzione e alla fine disse: «L’italia ha bisogno di giovani come lei. Non perda entusiasmo per la cultura, continui a studiare e alla fine avrà reso un servizio al suo Paese, la nostra povera Italia».
Sembrava un ragazzino appena un po’ invecchiato. Fumava una Turmac dopo l’altra. Mi accolse con cortesia tra il timido e il freddo e, tra una risposta e l’altra, mi regalò una pepita