Corriere della Sera

Il dolore (e la lezione) di due famiglie

- di Antonio Polito

Non c’è niente di più ingiusto della morte violenta di un ragazzo se non lo strazio del padre, e questo la nostra mente può arrivare a comprender­lo. Ma possiamo davvero capire il dolore della madre di chi ha ucciso? Un dolore duplice, che divarica: per il figlio, perché ha commesso l’atto che più di tutti lo allontana dalla dignità umana; e per la vittima di quel gesto, per il senso di colpa che prova nei confronti dei genitori, per la speranza di perdono che invoca loro. Giovanna Proietti, la madre del giovane accusato di aver sparato un colpo in testa a Luca Sacchi davanti a un pub del quartiere Appio Latino a Roma, è l’eroina moderna di una tragedia antica. Non smette di amare da nutrice il ragazzo che pensava incapace di far tanto male: «Ancora non posso credere che abbia compiuto un gesto simile». Ma è sicura che l’unica «speranza di riscatto» che possa ancora regalare al figlio non consista più nella protezione materna, ma bensì nell’affidarlo alla «polis», alla giustizia degli uomini, e per questo è stata lei a denunciarl­o: «Non ho pensato mai nemmeno un minuto che si potesse fare una cosa diversa». Giovanna dunque l’ha fatto per lui: «Meglio in cella che con gli spacciator­i». Ma l’ha fatto anche per sé, e per il rispetto che porta alla sua famiglia: «Non potevamo aggiungere al dolore di questa tragedia la vergogna di sentirci in qualche modo complici». Così si «incarna» davvero e di nuovo nel figlio, ne assume su di sé la colpa e la fa propria, soffre con lui in un’empatia estrema, che solo una madre può raggiunger­e. E condivide in questo modo il dolore del padre della vittima, il quale pure si è «incarnato» nel figlio che non c’è più, al punto di dirci: «Oggi ho indossato le sue mutande per prendere coraggio, porto con me i suoi occhiali da sole, dormo con il suo pigiama». C’è un tipo di famiglia che fa dell’egoismo la sua ragione d’essere, e noi italiani purtroppo la conosciamo bene: origina dallo spirito tribale e conduce al familismo amorale. Ma poi ce n’è un altro tipo, e anche questa la conosciamo bene, perché è descritta nella nostra Costituzio­ne, che la eleva a «società naturale» su cui si fonda la comunità dei cittadini, e le riconosce il diritto, ma le impone il dovere, di «istruire ed educare i figli». Il padre di Luca ha donato gli organi del suo ragazzo ucciso, emulandone l’altruismo pur nel più privato dei dolori. La madre di Valerio, il ragazzo che ha ucciso, ha donato invece a noi una lezione di educazione civica; e al figlio, forse, un’ultima possibilit­à di tirar fuori l’anima dal pozzo nero in cui l’ha gettata.

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