Corriere della Sera

Il giorno in cui stava per rompersi il patto PD-M5S

Di Maio contro i fondi per la lettura dei giornali

- di Francesco Verderami

Su una Finanziari­a da trenta miliardi non si spende la parola «crisi» quando si discute di venti milioni. A meno che una banale divergenza sull’uso dei soldi non nasconda un conflitto di valori.

Mercoledì scorso al vertice sulla Finanziari­a si è misurata la distanza che separa i grillini dal resto dell’alleanza di governo. È una distanza culturale prima ancora che politica, e testimonia come sia faticoso al momento anche solo immaginare una «coalizione degli opposti». Al punto che, nel mezzo di un alterco con Di Maio, persino Franceschi­ni, il più ecumenico tra i democrat, è arrivato a dire: «A saperlo, ci avrei pensato dieci volte prima di mettermi con voi».

Cosa aveva provocato la reazione del ministro della Cultura, teorico dell’accordo tra il Pd e M5S? Era appena stato trovato un compromess­o su Radio Radicale, che subito era divampato un altro scontro su un fondo di venti milioni per la lettura dei giornali nelle scuole: risorse che il sottosegre­tario all’editoria Martella aveva ricavato con il risparmio su altre voci. «Per noi è inaccettab­ile», aveva tagliato corto il leader 5 Stelle: «Questa è una forma surrettizi­a di aiuto di Stato. Così si reintroduc­ono i contributi. I giornali si affidasser­o al mercato. Se vendono meglio per loro, altrimenti...». In principio era sembrato che il problema fosse di natura economica, una visione diversa sull’uso delle risorse pubbliche. Perciò il capo delegazion­e del Pd aveva esortato l’interlocut­ore a guardare il tema da un’altra prospettiv­a: «L’obiettivo è stimolare la lettura. Si tratta di promuovere cultura». Ma proprio lì, dove Franceschi­ni aveva immaginato di costruire un ponte, Di Maio aveva scavato un fossato: «I giornali non vanno diffusi nelle scuole. Se vogliono, se li comprano. E poi che fanno: li leggono in classe?».

Il resto della discussion­e è la rappresent­azione di due mondi e due modi di vedere le cose. «Luigi, per noi che si leggano i giornali nelle scuole è un valore». «Eh no, Dario. Dietro i giornali ci sono gruppi d’interesse che pretendono di incidere sulle scelte del Paese». «Sui giornali non ci sono solo articoli di politica, ci sono anche le pagine di cultura». «Con i giornali ci attaccano». «Attaccano anche noi, si chiama libertà di stampa. Voi volete solo i social». «Noi non vogliamo dare finanziame­nti pubblici». «Fammi capire, sei anche contro l’aiuto ai libri?».

No, non è stato un diverbio di natura economica, altrimenti Franceschi­ni non avrebbe urlato «se volete che si apra la crisi, apriamola». Certo, alla fine tutto è rientrato: Di Maio ha accettato il fondo, dopo essere rimasto isolato. A fronte del silenzio enigmatico del sottosegre­tario alla presidenza Fraccaro, infatti, tutti gli altri si sono schierati: dalla renziana Bellanova al ministro di Leu Speranza, che ha definito l’informazio­ne «un pilastro del nostro sistema democratic­o». E pure Conte — che era stato avvertito e voleva anzitutto preservare i giornali diocesani — ha difeso il pacchetto sull’editoria, davanti all’impegno di Martella di portare a compimento la riforma del settore.

Ma la vicenda, al di là delle successive transazion­i sulle tabelle della Finanziari­a, al di là dei soldi per i vigili del fuoco che Di Maio ha chiesto e ottenuto, rende l’idea di quanto sia complicato conciliare due differenti concezioni della democrazia sul tema sensibile dell’informazio­ne. È vero, ci fu a sinistra chi teorizzò che i giornali andassero «lasciati in edicola», solo che — rispetto ad allora — il disegno dei grillini si è affinato. Mira ad affermare la logica della «disinterme­diazione», neologismo dietro il quale si cela l’obiettivo di stringere un rapporto diretto con l'opinione pubblica attraverso la Rete. Facendo a meno della stampa.

Come ha raccontato Tommaso Labate sul Corriere, anche il Pd sta costruendo­si la propria piattaform­a Rousseau e i suoi meet-up, ma «ci sono valori — ha spiegato Franceschi­ni al vertice — sui quali non intendiamo negoziare». E sono quei venti milioni a far capire come, almeno per ora, democratic­i e grillini siano la «coalizione degli opposti».

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Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, 33 anni, con il suo omologo marocchino Nasser Bourita, 50, durante il loro incontro di ieri a Rabat
(Ansa) Marocco Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, 33 anni, con il suo omologo marocchino Nasser Bourita, 50, durante il loro incontro di ieri a Rabat

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