Scorsese: 5 anni per l’ultimo film
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«Cinque anni per il mio ultimo film». A colloquio con il regista Scorsese.
«Però restano sullo sfondo. Ci spiegano dove andava l’america allora e ci ricordano che Frank Sheeran giocava su una scacchiera dove altri comandano. Ma a me non interessavano le idee di Frank sulla politica americana: io volevo raccontare solo le sue emozioni di uomo. Quello che mi interessa di una persona come lui è l’amore, il rimorso, il tradimento, la necessità del tradimento. Alla fine, la politica non c’entra: tutto si restringe al fatto che deve tradire la persona cui vuole più bene. Tutto resta focalizzato sull’individuo, sul dilemma umano, sul conflitto morale».
Una tragedia della vita quotidiana.
«Sono cresciuto in quartieri devastati dall’alcol, dove mettevano le bombe nei locali e la gente moriva per strada. Ogni giorno c’era una tragedia ma la gente si sforzava di vivere. La cosa sconvolgente è che queste tragedie facevano parte della nostra vita. Non c’è mai nulla di drammatico nelle uccisioni che vediamo fare a Frank. E non dimentichiamo che Sheeran aveva fatto la guerra: 411 giorni di battaglie in Italia, Anzio, Salerno, Montecassino. Chi sei quando torni a casa? Pensiamo ai soldati che oggi tornano dall’afghanistan e in tantissimi si suicidano. Non sto giustificando quello che fece Frank, sto cercando di capire».
Nel film c’è una scena molto divertente, quella sulla puzza di pesce in auto. Qualcuno ha scritto che è una scena alla Tarantino.
«È una scena vera, presente nel libro. Frank, Sally e Chukie stanno andando a uccidere Hoffa e Frank non si fida dei suoi due compari: ognuno potrebbe uccidere gli altri. Ma a differenza di altri film, qui la violenza è vera, ha delle conseguenze. Non è ad effetto, non vuole essere una punteggiatura artistica. È reale, anche se fa ridere. E comunque nei miei film c’era molto umorismo ben prima di Tarantino: penso a Mean Street, un po’ a Taxi Driver, molto a Toro scatenato e molto di più a Quei bravi ragazzi».
C’è molta musica nel suo film.
«Quando ero piccolo, la musica era la principale forma di comunicazione artistica. I miei genitori appartenevano alla classe operaia, non c’era l’abitudine di leggere libri. C’era il cinema, la radio, i juke box. Da ogni finestra usciva della musica e quella più famosa veniva dalle colonne sonore: il tema di Mario Nascimbene per La contessa scalza, quello di Ruby fiore selvaggio, quello di Grisbì, che ho messo nel film perché adoro Jean Gabin e volevo che De Niro si ispirasse un po’ a lui. E poi La ballata di Mackie Messer, Al di là di Luciano Tajoli che avevo imparato a conoscere in Gli amanti devono imparare di Delmer Daves...».
Anche la fotografia ha una patina antica.
«Definirei la luce di The Irishman una luce barocca, caravaggesca. L’ho chiesta a Rodrigo Prieto, il direttore della fotografia, perché l’illuminazione di quei posti era proprio così, coi séparé e i divanetti di pelle rossa che sembravano più scuri. Avevano un fascino misterioso. New York non era molto illuminata in quegli anni, c’erano poche luci per le strade. Io sono cresciuto nell’oscurità».
Per ringiovanire i suoi attori ha dovuto girare in digitale?
«Il film è girato per il 70 per cento in digitale e per il 30 in 35mm. Per il mio film precedente, Silenzio, le proporzioni erano invertite. Ho sempre cercato di usare la pellicola quando ho potuto, ma per la sperimentazione digi