Le ciofeche del Duce al posto del caffè
Tra i vantaggi che avrebbe dovuto procurare all’italia l’avventura in Etiopia, si diceva ci potesse essere anche un maggiore rifornimento di caffè. Ma le relative coltivazioni nell’impero conquistato dalle armate di Benito Mussolini presentavano diversi problemi. Sarebbe stato necessario attuare forti investimenti per renderle in grado di soddisfare la domanda dei consumatori italiani, fece notare l’agronomo Emanuele de Cillis. Le risorse però scarseggiavano e si preferiva impiegarle diversamente.
Di conseguenza, spiega Sergio Salvi nel vivace libretto Fascio ciofeca (Affinità elettive), si scelse di continuare ad esportare il caffè abissino in altri Paesi, dove era apprezzato, importando in Italia quello proveniente da Brasile e da altre terre latinoamericane, più gradito ai palati di casa nostra. Solo che la politica autarchica suggeriva di evitare un’eccessiva dipendenza dall’estero e così il ventennio littorio divenne il trionfo dei surrogati, detti spregiativamente «ciofeche», spesso raccomandati dalle autorità per ragioni più o meno fondate di tutela della salute.
Il libro di Salvi risulta divertente non solo per l’elencazione delle più varie sostanze utilizzate per produrre miscele destinate a sostituire il caffè (oltre alla proverbiale cicoria, troviamo orzo, malto, riso, melassa di fichi e di barbabietole, fave, bucce di cacao...), ma anche per gli esempi della retorica con cui se ne consigliava l’adozione.