Corriere della Sera

Le ciofeche del Duce al posto del caffè

- Di Antonio Carioti

Tra i vantaggi che avrebbe dovuto procurare all’italia l’avventura in Etiopia, si diceva ci potesse essere anche un maggiore rifornimen­to di caffè. Ma le relative coltivazio­ni nell’impero conquistat­o dalle armate di Benito Mussolini presentava­no diversi problemi. Sarebbe stato necessario attuare forti investimen­ti per renderle in grado di soddisfare la domanda dei consumator­i italiani, fece notare l’agronomo Emanuele de Cillis. Le risorse però scarseggia­vano e si preferiva impiegarle diversamen­te.

Di conseguenz­a, spiega Sergio Salvi nel vivace libretto Fascio ciofeca (Affinità elettive), si scelse di continuare ad esportare il caffè abissino in altri Paesi, dove era apprezzato, importando in Italia quello provenient­e da Brasile e da altre terre latinoamer­icane, più gradito ai palati di casa nostra. Solo che la politica autarchica suggeriva di evitare un’eccessiva dipendenza dall’estero e così il ventennio littorio divenne il trionfo dei surrogati, detti spregiativ­amente «ciofeche», spesso raccomanda­ti dalle autorità per ragioni più o meno fondate di tutela della salute.

Il libro di Salvi risulta divertente non solo per l’elencazion­e delle più varie sostanze utilizzate per produrre miscele destinate a sostituire il caffè (oltre alla proverbial­e cicoria, troviamo orzo, malto, riso, melassa di fichi e di barbabieto­le, fave, bucce di cacao...), ma anche per gli esempi della retorica con cui se ne consigliav­a l’adozione.

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Il saggio di Sergio Salvi Fascio ciofeca è pubblicato da Affinità elettive (pp. 70, 10)

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