Le luci di Laos e Cambogia
Dai monasteri di Luang Prabang ai templi in rovina di Angkor La nuova vita sulle rive del Mekong
Due smeraldi incastonati nel Sud-est asiatico. Due gioielli di Storia e cultura capaci di conquistare il viaggiatore grazie alla luce diafana dell’inverno equatoriale, caldo ma secco, che esalta il verde delle foreste e l’ocra di una terra generosa. Laos e Cambogia vi aspettano, con i loro templi e le loro capitali che cercano un passaggio verso il futuro restando ancorate in un passato di splendori e, anche, grandi sofferenze.
Dal 31 gennaio al 10 febbraio 2020, il Corriere vi porterà a conoscere un angolo di mondo che ha popolato i sogni di tutti e che per lungo tempo ha fatto parte di quell’indocina francese destinata a sgretolarsi nel secolo breve, il Novecento. Il viaggio comincia da Luang Prabang, città nel Nord del Laos, chiusa tra il fiume Mekong — vera linfa vitale per i Paesi che attraversa — e il Nam Khan. Espressione dell’arte Lao, ricca di monasteri (famoso è quello di Wat Mai) e cripte dedicate alla vita del Buddha, Luang Prabang saprà toccarvi nel profondo con i suoi colori, i suoi profumi speziati, i sorrisi di una gente fiera ma capace di accogliere con estrema simpatia i viaggiatori.
Dagli altipiani laotiani alla Cambogia centrale: Siem Reap è la seconda tappa. Da lì, ai bordi del lago Tonle Sap (dove visiteremo il villaggio galleggiante che vive del respiro, legato ai monsoni, delle sue acla que), avremo la possibilità di immergerci nel centro culturale dell’antico Regno Khmer: Angkor, i cui templi in rovina rosseggiano all’alba fino all’orizzonte, come in un luogo senza tempo. Altra sosta da segnare nell’agenda: Angkor Wat, il più grande edificio religioso esistente al mondo.
Parlare di Cambogia e non riferirsi alle tragedie che hanno devastato questo Paese al termine della Guerra del Vietnam è impossibile. Per questo, arrivando a Phnom Penh, capitale, passaggio necessario sarà il Museo del genocidio di Tuol Sleng, scuola trasformata in Lager. Il riferimento è al periodo in cui i Khmer Rossi di Pol Pot provarono a costruire l’«uomo nuovo» uccidendo tutti quelli che potevano impedire la «rinascita» della nazione secondo i principi di un marxismo-leninismo rurale portato agli estremi. Dunque docenti, intellettuali, giornalisti, chi parlava una lingua straniera (molti nell’amministrazione dello Stato, a quel tempo, visti i legami passati con Parigi, sapevano il francese): per loro non c’era possibilità di riscatto, di adesione al futuro immaginato dai Khmer Rossi, privo di contatti con la modernità, lontano dalle città «corrotte dalla borghesia».
E dunque furono uccisi subito o inviati nei killing fields, i campi della morte raccontati nel film omonimo di Roland Joffé (in italiano: «Urla del silenzio», 1984), in attesa dell’inevitabile. Laos e Cambogia: due Paesi vicini e lontani allo stesso tempo. Ma entrambi coinvolti loro malgrado nel conflitto combattuto prima dai francesi poi dagli americani nel confinante Vietnam. Entrambi subirono bombardamenti e rappresaglie. E poi regimi nati in seguito agli sconvolgimenti geopolitici e ai nuovi equilibri. Due Paesi che tuttavia si sono ripresi e hanno cercato di superare queste tragedie per trovare uno sviluppo più armonioso, anche se imperfetto. Raccontarne le vicende sarà l’occasione per rivedere anche Storia e responsabilità dell’occidente. Phnom Penh, l’ultima tappa, offre anche splendidi palazzi e templi capaci di abbacinare con i loro tetti a punta ricoperti di lamelle d’oro, capolavori che si riflettono nelle sconfinate acque dell’eterno Mekong.
Phnom Penh è anche la città dove hanno sede diverse Onlus che — con l’aiuto di preziosissimi volontari, molti italiani — cercano di rimettere in sesto il tessuto produttivo e culturale perduto negli anni dei Khmer Rossi (19751979). Una visita a una di queste realtà vi aprirà il cuore.