LE PAURE CHE IL PD NON COMPRENDE
Il rapporto con la base L’assemblea nazionale di Bologna dovrebbe partire dalla capacità di ascoltare la domanda di protezione
P ossiamo dire che vi sia stata nel Pd una riflessione adeguata sul risultato delle regionali in Umbria e sulla condizione di un partito che rischia di apparire a rimorchio (dal taglio dei parlamentari alla vicenda Ilva) dei Cinquestelle? A parte i commenti a caldo dei minimizzatori a ogni costo («il risultato umbro era atteso», per intenderci), i suoi esponenti hanno evocato il tasso di litigiosità nel governo come causa delle difficoltà di un partito al quale i sondaggi attribuiscono attualmente non più del 20 per cento a livello nazionale; oppure hanno sostenuto l’opportunità di una fase costituente, auspicato un cambio del nome, invitato a una discussione approfondita. Tutte osservazioni che hanno soprattutto un limite: rivelano la tendenza a guardare solo al proprio interno per individuare i motivi della perdita nei consensi, mentre bisognerebbe guardar fuori, ascoltare le ragioni degli elettori che un tempo votavano per il Pd e hanno smesso di farlo. Bisognerebbe, insomma, che i democratici andassero a cercare i voti di un tempo là dove sono finiti; dunque anche nelle file dell’elettorato leghista, visto che il successo di Salvini è alimentato anche da elettori di sinistra delusi, che hanno visto nelle forze cosiddette populiste una capacità di ascolto che la sinistra, che in origine considerava il radicamento popolare come il fulcro della propria identità, non sembra più possedere.
La ricollocazione politica di molti lavoratori e ceto medio impoverito che, spaventati dalla crisi economica e dalla globalizzazione, abbandonano le forze progressiste è un fenomeno non solo italiano, come è stato detto e scritto un’infinità di volte, fino alla noia, ma senza alcuna influenza sulla riflessione politica e le decisioni del Pd. C’è probabilmente un blocco culturale che impedisce ai suoi esponenti di guardare ai timori e alle richieste di chi li votava e ora non li vota più: è l’idea che certe paure diffuse nei ceti popolari — anzitutto di fronte a rapine e atti di violenza, da un lato, all’immigrazione clandestina dall’altro — non abbiano legittimità mancando di un fondamento nei dati reali delle statistiche (non c’è in effetti un’impennata negli sbarchi né un aumento degli episodi di violenza); pertanto devono essere oggetto non di ascolto ma di critica. Riguardo al tema dell’immigrazione clandestina, aveva provato il ministro Minniti ad affrontarlo, coniugando accoglienza e rigore, con gli accordi con la Libia, ma quella soluzione si è scontrata, prima ancora che con l’inaffidabilità degli interlocutori (a cominciare dalla guardia costiera libica), con l’opposizione di una parte del Pd che considerava la politica di quel ministro «di destra». In effetti, c’è chi pensa che, se prestasse attenzione alle domande di protezione così abilmente sfruttate dalla Lega, la sinistra perderebbe la propria ragion d’essere e diventerebbe semplicemente di destra. Ma questo è un ragionamento che si basa su una premessa sbagliata.
L’errore fondamentale del Pd, che Salvini ha saputo sfruttare con grande abilità, sta nel non comprendere come in fondo le paure siano sempre legittime e in qualche modo giustificate, poiché è vero e reale il sentimento di insicurezza, la condizione — spesso psicologica e sociale insieme — di difficoltà che le alimenta; sono semmai le risposte quelle che vanno criticate (dai decreti sicurezza alla chiusura dei porti) magari interrogandosi se in ciò che propongono gli altri tutto sia sempre e solo da buttare. Il Pd dovrebbe tanto più orientarsi in questa direzione, in quanto certi timori, ansie, senso di insicurezza riguardano soprattutto i ceti popolari delle periferie urbane e delle zone di maggiore degrado. Ceti e zone da cui quel partito pare oggi lontano: il tentativo di riavvicinamento fatto nel luglio 2018, con la riunione della segreteria nazionale a Tor Bella Monaca, era stato probabilmente concepito soprattutto a beneficio delle telecamere. Eventuali cambi di nome, congressi, assemblee nazionali (come quella del prossimo 15-17 novembre a Bologna) dovrebbero partire da qui, dalla capacità di ascoltare una domanda di protezione che sale dal basso e ha ormai radici profonde.