«Tra l’america e la Turchia uno scambio sulla pelle dei curdi»
Gilles Kepel, oggi al Premio Cutuli: «Da Erdogan il via libera a Trump per Al Baghdadi»
«Siamo ormai nell’era post-isis. Quando Recep Tayyip Erdogan il 26 ottobre ha permesso a Donald Trump di eliminare Abu Bakr al Baghdadi questi era già militarmente e politicamente bruciato. I responsabili dell’attacco contro gli italiani in Iraq sono un misto di jihadisti sunniti legati alla meteora del vecchio Isis ed ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein, che restano presenti e attivi, specie nelle regioni tra Mosul e Kirkuk a ridosso delle zone curde. Mi attendo meno attacchi in Europa in stile Parigi, Nizza o Bruxelles 2015-17. Ma ciò non significa affatto che il pericolo dell’estremismo islamico sia finito». Gilles Kepel, il celebre politologo francese esperto di Medio Oriente, analizza gli ultimi sviluppi nella regione (ne parlerà anche oggi alle 21 alla conferenza per il Premio Cutuli nel contesto di Book City in Sala Buzzati, presso il Corriere della Sera).
Il presidente turco è appena stato negli Stati Uniti: ha cercato l’intesa con Trump, nonostante la sua nuova vicinanza a Vladimir Putin?
«I due hanno forti interessi coincidenti. Si sono intesi bene sulla Siria. Trump ha come priorità venire rieletto alle
dTerrorismo Avremo meno attentati in Europa, ma il pericolo jihadista non è finito
presidenziali dell’anno prossimo ed è convinto che riceverà più voti se riporterà a casa il massimo numero di soldati americani, anche a spese dei curdi. Erdogan mira invece a debellare una volta per tutte la zona autonoma curda di Rojava, che è alleata agli indipendentisti curdi in Turchia. Da qui lo scambio: Trump ha dato carta bianca ai turchi in Siria. E, per garantirlo dalle accuse di aver indebolito gli alleati curdi nella lotta contro Isis, Erdogan gli ha permesso di uccidere Baghdadi».
È stato così automatico?
«Direi che è evidente. Baghdadi era ormai fuori gioco. Poi Trump ha cercato di propagandare il suo successo paragonandolo a quello di Barack Obama contro Osama Bin Laden nel 2011. Ma non regge. Bin Laden restava il capo carismatico ideatore degli attentati dell’11 settembre 2001, un simbolo per tutti i jihadisti. Baghdadi era invece ridotto all’ombra di sé stesso, un cinghiale in trappola, braccato, isolato, perdente su tutta la linea. I militari di Ankara lo tenevano sotto controllo nel suo covo nel villaggio di Barisha a cinque chilometri dal confine turco. Erdogan ha ora interesse a tenere viva l’alleanza con gli americani, in modo che faccia da argine allo strapotere crescente di Putin in tutta la regione».
Erdogan tiene i piedi in due scarpe tra Washington e Mosca?
«Gli riesce bene. Compra i missili russi, ma resta nella Nato. Putin ora è diventato persino il garante dei curdi. Il suo rapporto col presidente turco è carico di incognite e attriti. Ma la Russia resta una potenza povera. Il suo prodotto interno lordo non supera quello della Spagna. Da qui il ruolo europeo per la ricostruzione economica del Medio Oriente come garanzia della sua stabilità politica».
Sì, ma l’europa è una potenza economica senza denti, senza politica estera o un esercito comuni. Non crede?
«Certo, potenzialmente siamo i più forti. Ma dobbiamo armarci al più presto con un esercito europeo. Sono d’accordo col presidente Macron. Vedo la possibilità di nuove intese italo-francesi sulla Libia. E la prossima uscita di scena di Angela Merkel è destinata a ridurre l’insistenza tedesca sulla Nato».
Cinque soldati italiani sono appena stati feriti in Iraq.
«Ciò nulla toglie alla necessità di una forza d’intervento europea. Siamo ormai in un mondo post-isis. La violenza jihadista continuerà. Ma assumerà forme diverse dal passato. Le nostre polizie europee sono ormai ben organizzate e coordinate tra loro per debellare la propaganda violenta degli estremisti islamici via internet. È la prova che non possiamo più agire in ordine sparso e affidarci soltanto all’ombrello americano, che comunque non c’è più».