Gas Plus e i «piccoli»: nuovi canoni e royalties, così il settore affonda
Le aziende dell’oil&gas: serve un tavolo al Mise
In Val Nure, provincia di Piacenza, c’è un pozzo che estrae gas che non è collegato alla rete nazionale, farlo sarebbe stato troppo costoso. Eppure rifornisce a «chilometro zero» i paesi circostanti. Ogni anno frutta 150 mila euro di ricavi, 19 mila di utili e dà lavoro a tre-quattro persone. È di proprietà della Gas Plus di Davide Usberti, media azienda del settore oil&gas (quotata in Borsa), realtà storica di un’industria che affonda le sue radici nel Novecento. Se con la legge di Bilancio ora in discussione passassero le misure previste sul settore idrocarburi, quel pozzo dovrebbe probabilmente chiudere e con esso diverse altre attività. Che non riguardano colossi come Eni o Shell, tutt’altro. A fermarsi o a trovarsi in grave difficoltà sarebbero diverse piccole e medie aziende del settore, che producono tra il 20 e il 30% del gas naturale che ancora si estrae in Italia. Più o meno 1,5 miliardi di metri cubi che peraltro, se dovessero essere importati, costerebbero 300 milioni alla bilancia commerciale del Paese.
Ciò che queste aziende chiedono al ministero dello Sviluppo e a quello dell’economia è di rivedere alcuni «effetti collaterali» di provvedimenti pensati avendo come obiettivo i «big» dell’energia. Come l’aumento dei canoni di concessione di 25 volte, che se per Eni e Shell sarebbe tutto sommato poca cosa (l’impatto globale è stimato in 30 milioni) metterebbe però in ginocchio i «piccoli». O come la revisione delle franchigie, cioè l’applicazione delle royalties a partire da certe soglie produttive, che vale all’incirca 40 milioni. Ma non solo, perché sullo sfondo resta poi l’incertezza su attività e investimenti pressoché fermi a causa della «moratoria» sulle aree idonee all’esplorazione e produzione di gas e petrolio decisa in attesa di un Piano nazionale di cui non si vede la
5.000 posti di lavoro In bilico ci sono cinquemila posti di lavoro di aziende medio-piccole
nascita. La richiesta, spiegano le aziende, non è di non pagare, ma di aprire un tavolo di discussione al Mise.
Una mossa che secondo i primi calcoli avallati persino dalle relazioni tecniche ministeriali potrebbe addirittura convenire allo Stato. In bilico ci sono 5 mila posti di lavoro (che dopo i 10 mila dell’ilva sarebbero drammatici) e, paradossalmente, un saldo fiscale che si prospetta negativo per 100 milioni se le attività colpite scomparissero. Compreso quel piccolo pozzo della Val Nure.