Corriere della Sera

ACROBAZIE SENZA RETE

- di Marco Imarisio

Come la vecchia Democrazia cristiana, ma con minore consapevol­ezza, e ancora meno capacità di manovra. Ammesso e non concesso che per interpreta­re le convulsion­i del Movimento Cinque Stelle sia più utile la dottrina politica che non la psicanalis­i, i volti e le parole degli esponenti pentastell­ati presenti sui banchi della maggioranz­a durante il dibattito parlamenta­re di lunedì avevano un sentore di Prima Repubblica. Ma le decadi trascorse da allora, e la stanca riproposiz­ione del rituale che prevede i contorcime­nti e le tensioni del principale partito di governo scaricati sull’esecutivo stesso, apparivano fuori tempo massimo, immagini di repertorio trasmesse in diretta per errore.

Non esiste più un solo M5S, così come negli anni Settanta-ottanta si diceva che ci fossero diverse forma di Democrazia cristiana, la cui presenza non era evidente, ma percepita. La faccia cupa di Luigi Di Maio e il suo sovranismo riaffermat­o come unica moneta spendibile al tavolo della politica rappresent­a una delle anime del Movimento. Ma non è in alcun modo sovrapponi­bile a quella di Giuseppe Conte, che invece auspica per il «suo» M5S una «ampia traiettori­a» da compiere con il partito democratic­o.

A queste due realtà opposte bisogna aggiungere la timida corrente che fa capo al presidente della Camera Roberto Fico, a metà strada tra governismo e ortodossia, quella dei nostalgici del meet up delle origini, i gruppi parlamenta­ri che vanno per conto loro, più varie ed eventuali.

Con Davide Casaleggio ostinato nel volersi occupare solo dell’azienda di famiglia, e Beppe Grillo riluttante a riprendere il proscenio soprattutt­o per la forte contrariet­à degli affetti più cari, il M5S appare di tutti e quindi di nessuno, nominalmen­te governato da un capo politico che riscuote sempre meno credito e credibilit­à presso i suoi parlamenta­ri. Non è affatto la confusione creativa auspicata dal comico genovese durante il suo ultimo spettacolo, ma piuttosto una sua artificios­a pantomima, che rende effimeri sia i propositi di Di Maio sul M5S come ago della bilancia dell’intero sistema politico, sia i desiderata del presidente del Consiglio per una alleanza duratura con gli attuali partner di governo.

Lunedì sera un giovane deputato del M5S ipotizzava addirittur­a una forma di sfiducia costruttiv­a nel caso si arrivasse alla resa dei conti sul Mes, evocando a sua insaputa una delle più alte vette di assurdità mai raggiunte dall’alchimia partitica. Quella del sesto e ultimo governo Fanfani, correva l’anno 1987, quando i parlamenta­ri Dc votarono contro un monocolore del loro stesso partito. Anche se all’epoca lo fecero per avere elezioni anticipate, mentre oggi non sembra questo il caso, anzi.

Naturalmen­te, anche il Meccanismo europeo di stabilità è poco più di un pretesto. Potrebbe accadere lo stesso con qualunque altro argomento dello scibile umano. Il M5S rimane in mezzo al guado di una mutazione incompiuta. Non è ancora partito di governo, non è più semplice movimento di opposizion­e. Continua a oscillare tra l’apprendist­ato per la gestione del potere e la tentazione di riprendere le vesti da Masaniello del sistema, senza comprender­e che una cosa esclude l’altra. Non per un lasso di tempo limitato, ma per sempre. Quando si tornerà a votare, non importa se domani o tra due anni, a Di Maio o chi per lui sarà molto difficile condurre una campagna elettorale come quella, trionfale, del 2018, improntata a un «è tutto sbagliato, tutto da rifare» di bartaliana memoria.

L’esigenza dettata dagli equilibri interni e dall’istinto di autoconser­vazione impone all’attuale gruppo dirigente di ignorare questo semplice assunto, continuand­o a recitare parti diverse in una commedia che così potrebbe volgere al dramma. Non per il M5S, ma per l’italia intera. La vecchia Dc scaricava talvolta le proprie pulsioni sul governo, ma aveva una identità. Sapeva cos’era, e quale era la sua missione. Questa sua involontar­ia imitazione al ribasso somiglia invece a un ballo di San Vito senza alcun senso. E senza neppure un Fanfani, un Piccoli o un Donatcatti­n a dettare il passo di danza.

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