L’UE VUOLE DIRE PARTECIPAZIONE
ELEZIONI GB, POLITICA ESTERA SOTTO ESAME
La scorsa settimana il leader laburista Jeremy Corbyn pensava di aver sferrato un colpo decisivo contro Boris Johnson: aveva sbandierato documenti riservati che provavano, a suo dire, l’esistenza di trattative segrete fra il governo conservatore e l’amministrazione Trump per svendere agli americani il prezioso e riverito servizio sanitario britannico. Ma è un’arma che si è rivelata un boomerang: perché esperti indipendenti, che avevano già lavorato sulle interferenze russe nella campagna elettorale americana, hanno individuato dietro quel dossier la probabile «manina» del Cremlino. Non che Mosca voglia favorire Corbyn contro Johnson: l’obiettivo delle operazioni di disinformazione russa è quello di seminare confusione e sfiducia e minare in questo modo le democrazie occidentali. Ma la questione del «dossier» riservato sulla sanità ha sollevato rumorose polemiche a Londra e ha riacceso i riflettori sulle posizioni internazionali dei laburisti di Corbyn: perché se è vero che le critiche si sono finora concentrate soprattutto sui programmi di statalizzazione dell’economia e sulla tolleranza nei confronti dell’antisemitismo, è la «diplomazia» laburista quella che rischia di imprimere una svolta radicale alla collocazione geopolitica della Gran Bretagna. Non a caso ieri, in apertura del vertice Nato, Johnson ha avuto buon gioco nel bollare Corbyn come «un rischio per la sicurezza»: non sono infatti un mistero le simpatie del leader laburista per Hamas e Hezbollah nonché il suo atteggiamento «morbido» verso la Russia di Putin, che lo ha portato persino a dubitare che ci fosse la mano del Cremlino dietro l’avvelenamento, l’anno scorso, dell’ex spia Serghej Skripal a Salisbury. Un governo a guida laburista, dopo le elezioni della prossima settimana, non è impossibile: e aprirebbe un capitolo tutto da scrivere nelle relazioni internazionali.
Èsenza dubbio una buona notizia che la Germania e la Francia abbiano proposto in questi giorni una «Conferenza Intergovernativa sul futuro dell’europa» con la dichiarata finalità di rendere l’unione più aggregata.
D’altra parte l’avvio di una fase di revisione delle regole europee, seppure con intonazioni diverse, ha rappresentato forse il più importante degli impegni elettorali assunti dai partiti che hanno partecipato alla contesa dello scorso mese di maggio. Quindi il fatto che finalmente, anche in concomitanza con l’insediamento della nuova Commissione europea, si torni a parlare di Europa è fondamentale per mantenere accesa la speranza di un cambiamento di rotta volto a segnare una discontinuità culturale con la diffusa percezione che il progetto unitario rappresenti un intralcio anziché un vantaggio per i cittadini degli Stati membri.
Tuttavia l’integrazione degli Stati europei è ancora lontana dal realizzarsi appieno, come documentano gli infervorati dibattiti parlamentari e le sovrabbondanti, talvolta imperscrutabili, asserzioni sul Mes (Meccanismo europeo di stabilità).
A ben vedere dietro l’apparentemente innocuo acronimo (Mes), si nascondono le principali problematiche dell’unione. Innanzitutto la mancanza di una adeguata conoscenza delle Istituzioni e degli organismi dell’ue. Una condizione aggravata dalla incompleta e non di rado faziosa comunicazione sul loro funzionamento. Il disorientamento che ne discende impedisce in generale, e quindi anche nel particolare caso del Mes, di valutare con la necessaria obiettività se quest’ultimo è una opportunità per rafforzare il legame solidaristico, anche sotto il profilo dell’unione monetaria, tra gli Stati europei, oppure un pericolo per gli stessi, soprattutto per quelli con un alto debito pubblico.
In proposito è bene precisare, in primo luogo, che la disputa deve essere limitata alla sola eventuale riforma del Mes poiché detto meccanismo salva-stati è stato istituito da ormai molti anni, sulla base di una decisione adottata il 25 marzo del 2011 dal Consiglio europeo all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo, della Commissione europea e della Banca centrale. Istituzione nelle quali il nostro Paese era autorevolmente rappresentato.
Inoltre, ed è questo il punto centrale, poiché la decisione di istituire un meccanismo permanente di stabilità dell’area euro si poneva in contrasto con i Trattati europei e specificatamente con la clausola di divieto di salvataggio finanziario sancita dal Tfue (art. 125 del Trattato sul funzionamento dell’ue), si è reso necessario procedere ad una revisione del Trattato sull’unione europea. Da qui alcune considerazioni. I Trattati europei sono modificabili. Lo stesso commissario europeo per gli Affari Economici uscente, ha dichiarato che le regole (europee) possono e devono essere cambiate, per renderle più semplici, più leggibili e capaci di sostenere la crescita. Correzioni che è possibile effettuare anche nel caso della riforma del Mes. Ma soprattutto il tema deve rappresentare per l’italia una opportunità per recuperare i tempi di una riflessione di fondo che, contrariamente da altri grandi Paesi europei, non è avvenuta in occasione della ratifica del Trattato di Maastricht del 1992. Allora il dibattito sulla espressione «sovranità nazionale» è stato molto rilevante per valutare se il Trattato Ue poteva costituirne un «attentato». Laddove, come in Francia, è stato stabilito che talune disposizioni del trattato risultavano essere contrarie alla Costituzione, si è proceduto alla revisione della stessa. Nel caso della Francia ciò è avvenuto a giugno del 1992.
L’italia aderendo ai Trattati istituitivi ed alle successive modifiche, pur senza ricorrere a formali revisioni della Carta costituzionale, ha liberamente scelto di limitare la propria sovranità. Si può discutere se ciò costituisca ancora un vulnus alla piena e convinta adesione del nostro Paese all’unione, ma verosimilmente si tratterebbe di una dissertazione astratta. Molto più efficace sarebbe partecipare intensamente, con le massime competenze disponibili, ad una manutenzione consistente delle regole europee, rinnovando con forza la richiesta di promulgare finalmente la Costituzione europea , quale imprescindibile presupposto per la condivisione di valori.