Duello di vita e marmo Così cambiò la scultura
L’intreccio di tecniche e «rivalità» portò al concetto moderno
Ecco, le Grazie. Da Pietroburgo è arrivato il simbolo di un artista, Canova, che era certamente «antico, non so se di Atene o di Corinto», come annotò Francesco Milizia, nel Settecento. Ma era, a suo modo, «antico» anche il danese, sebbene con variazioni volute, studiate, calcolate: «Se Canova rifiniva tutto con il suo famoso tocco, Thorvaldsen lasciava qualcosa di grezzo, quasi un’idea d’astrazione», suggerisce Mazzocca.
Il tedesco Rudolph Suhrlandt fece il ritratto a entrambi, quasi nello stesso anno: quello di Canova è del 1811 e si coglie immediatamente un lampo di vitalità negli occhi. Lo sguardo del danese è invece più serio, trattenuto. «Canova impose uno stile lindo, che arriverà fino a Wildt, mentre per Thorvaldsen la scultura era soprattutto ideazione, quella linea di pensiero che metterà radici poi in artisti come von Hildebrand», dice l’altro curatore, Stefano Grandesso. Tutti e due dominarono la Roma di quegli anni, fondando vere e proprie imprese culturali. I marmi migliori, i consulenti più prestigiosi, reti di sostenitori e mecenati che accompagnavano ogni nuova idea.
Canova per primo pensò di installare una sorta di moderno showroom in cui esponeva dei modelli in gesso, da replicare dopo in marmo: li mostrava agli interessati, e così fece anche il rivale, tanto che ogni volta c’erano delle vere e proprie gare per conquistare quella Venere o quel Cupido. «Ma così facendo creavano schiere di emuli che, a loro volta, elaboravano quelle idee, le ampliavano», dice Mazzocca. Ecco perché la scultura moderna nasce con questo duello. E cambiarono anche la geografia del mecenatismo: tra i loro estimatori non c’erano soltanto potenti uomini politici (ricordiamo il legame di Canova con Napoleone) e sovrani illuminati. Il
Sommariva, per dire, era un borghese che si era arricchito e che sosteneva entrambi. La scultura usciva dal recinto puramente celebrativo e «politico». Canova, in particolare, vedeva nella bellezza una contrapposizione alla guerra, come un antidoto alla crudeltà di un’epoca in fiamme. Non solo. La sua era un’idea di bellezza democratica perché accessibile, addirittura riproducibile. Imitabile. Ancora oggi.