Suleiman: io, palestinese con ironia
Commedia del regista premiato a Cannes. «Toni leggeri per la mia storia più disperata»
«N azareth, Palestina». Sono le parole pronunciate da Elia Suleiman Il paradiso, probabilmente, di cui è protagonista e regista. Il tassista newyorkese non crede alle sue orecchie: «Palestinese? Mai visto uno! Palestina...? Nazareth, Gesù?». Vaghe e storpiate coordinate su un fazzoletto di terra per lui remoto e ignoto come la Luna. Per Suleiman, che lì è nato, una terra promessa negata e violata. La patria di un artista senza patria, che giorno dopo giorno registra con doloroso stupore il saccheggio reale e metaforico del suo giardino di limoni da parte di un vicino invadente. Finché, stremato, Elia si arrende. Messe in valigia le sue armi letali, quell’ironia e gusto dell’assurdo rubati a Buster Keaton e a Tati, parte per cercare altrove il paradiso di una normalità preclusa.
Premiato a Cannes con una menzione speciale il film, nelle sale dal 5 dicembre, è una commedia surreale costellata di gag dal retrogusto amarissimo.
Trio
Nancy Grant, Elia Suleiman (anche attore) e Gael García Bernal in «Il paradiso probabilmente», il nuovo film del regista palestinese Perché dietro l’apparenza smagliante di Parigi e New York, le ragazze dalle lunghe gambe scoperte, i giardini curati, i negozi luccicanti, affiora una tensione che sembra simile a quella che l’esule si è lasciato alle spalle. «Se nei miei film precedenti mostravo la Palestina come microcosmo del mondo, stavolta tutto il mondo è Palestina».
Il suo sguardo impassibile riprende una Parigi deserta e militarizzata. La parata militare del 14 luglio stravolge il paesaggio occupando le viuzze antiche con surreali carri armati. Non va meglio a New York, dove l’ossessione delle armi è così diffusa che le famigliole vanno al supermercato con il mitra a tracolla. «Ho scelto queste due città perché le conosco bene. Mostrarle senza il solito glamour, con le tracce di un conflitto ormai diffuso, è il segno di un Medioriente globalizzato. Le stesse tensioni ovunque, gli stessi controlli ossessivi, sirene e allarmi».
Il sogno svanisce. «Per quanto tu vada lontano ti ritrovi sempre a casa. Con la differenza che non ci sono neanche i tuoi limoni e il vicino rompiscatole con cui litigare». Il pellegrinaggio in Occidente lascia l’amaro in bocca. Elia osserva tutto ma nessuno sembra badare a lui. Nemmeno i produttori a cui si rivolge per il suo film. «Non è abbastanza Palestina, potrebbe succedere ovunque, anche qui» lo liquida il manager francese sintetizzando inconsapevole la tesi del regista. E a New York non riesce nemmeno a presentare il suo progetto. Invano l’amico Gael García Bernal lo presenta come «Un famoso regista palestinese». «Palestinese di Israele?» chie
● Il grande successo arriva nel 2002 con «Intervento divino» che narra una storia d’amore ambientata al checkpoint tra Nazareth e Ramallah de la possibile finanziatrice. «No, palestinese di Palestina» precisa Bernal calando l’ultima carta: «È palestinese, ma fa film divertenti». Per l’americana un paradosso insormontabile.
«Dietro l’ironia, questo è il mio film più disperato. Il problema della Palestina oggi si può riassumere in una parola: giustizia. Che i palestinesi non otterranno. Non a breve almeno. La mia Palestina non è più una questione geografica, è un concetto morale».
Distribuito in 18 Paesi del mondo, Il paradiso, probabilmente non verrà visto in Israele. «Per la prima volta ho deciso di non mostrare un mio film in un Paese il cui governo occupa sempre più le nostre terre e sempre meno cerca una soluzione di pace». Eppure la speranza resiste. Il film si chiude con dei giovani palestinesi che ballano allegri. Suleiman li guarda in disparte. «La mia generazione non vedrà la fine di questo incubo, ma loro sì. Il futuro della Palestina è nelle loro mani».