Papa Francesco, l’identità figlia di un Paese dal doppio volto
Papa Francesco e le radici argentine: l’identità che si apre allo spirito universale
«Che cosa ha a che vedere il gaucho con noi?». A chiederselo è uno di quei noi, un uomo che ora si chiama papa Francesco — Francesco I, nella bimillenaria sequenza dei pontefici — ma che allora, nel 1973, mentre scriveva queste parole, si chiamava Jorge Mario Bergoglio, Provinciale dei Gesuiti dell’argentina.
Quella sua domanda si trova in una prefazione al Martín Fierro, poema nazionale argentino e capolavoro della letteratura gauchesca scritto da José Hernández (1872). Un poema in sestine che a suo modo evoca quelli cavallereschi cantati nelle piazze; la storia di un gaucho, un cavaliere senza casa la cui patria sono il suo cavallo e la Pampa sconfinata e che le vicende della vita, le ingiustizie patite e commesse portano pure allo scontro, al duello con gli uomini e con la legge, alla generosa solidarietà ma anche alla rapina, alla lotta e alla fuga. Del poema si conosce — grazie alla citazione che ne ha fatto Borges, geniale copista e falsario — uno splendido episodio in cui il sergente Cruz, venuto a catturare Fierro con alcuni poliziotti, durante la sparatoria capisce d’improvviso, in una rivelazione del proprio destino, che la sua parte nella vita non è quella del cane da caccia, ma del lupo braccato e si mette, con la sua pistola, al fianco del ribelle.
Cosa cerca padre Bergoglio, francescano nell’animo e gesuita nel rigore intellettuale, ordinato sacerdote quattro anni prima, futuro cardinale nominato da Giovanni Paolo II e futuro Papa, in un avventuriero della Pampa, veloce nell’attacco e nella fuga? Cerca anzitutto — e lo dice a fondo, nella prefazione al poema — il rapporto fra un’identità particolare, nazionale, culturale e la più vasta appartenenza all’umanità, in cui quell’identità selvaggia possa comporsi e trascendersi senza perdersi ma inserendosi in un coro più vasto. È la violenta e caotica storia argentina che forma l’esperienza e la visione di Bergoglio. Un Paese in cui è burrascosa e caotica la relazione fra l’individuo e lo Stato, fra i criollos che si sentono gli abitanti originari e dunque più legittimi e i gringos arrivati a ondate da tutte le parti del mondo, in particolare pure dall’italia. Un Paese in cui la vita politica è una continua guerra fra unitaristi e federali, fra i bianchi e gli indios sterminati a più riprese, fra le popolazioni dell’estremo Sud Antartico e la Sociedad Explotadora de Tierra del Fuego che possiede 1.376.160 ettari e altre come essa, che con gli allevamenti ovini distruggono l’habitat e intere popolazioni indiane; rivolte operaie e repressioni sanguinose. Colpi di Stato, dittature locali di tanti caudillos e di Rosas, grande massacratore di indios e proprietario di 300 chilometri quadrati di terreno e di 300.000 capi di bestiame. Darwin, evidentemente più esperto di brontosauri che di uomini, lo ammira quale uomo di governo volto al progresso e alla prosperità del Paese. Lo trova straordinario, «sensibile e molto serio», e non si scandalizza per le torture della sua polizia politica, la famigerata mazorca, né per le umiliazioni e le durissime punizioni corporali inflitte per un nonnulla ai suoi due «buffoni» di corte.
Dall’ottocento fino ad oggi, col fiorire e decadere di tirannidi, disordini, disastri e rinascite, l’argentina — dei gauchos e dei generali, degli operai e degli sfruttatori e soprattutto delle tante stirpi — è la bruciante realtà che ha fatto cogliere a Bergoglio direttamente, dal vivo, il problema oggi universale delle identità e della mondializzazione, delle particolarità nazionali e del meticciato che le scompone e rimescola. Il poema gauchesco è l’occasione per analizzare una realtà e una prospettiva che gli stanno particolarmente a cuore: la continuità e l’unità della nazione e il suo rapporto, fermo e dialettico, con la mondializzazione. Papa Francesco aborre i muri etnici ma non vuole un’umanità ibrida e indistinta come quella di Blade Runner. La sua visione è cattolica per eccellenza, ossia, come dice la parola stessa, universale; la visione
Vicissitudini
In due secoli Buenos Aires ha visto spesso il fiorire e decadere di tirannidi, disordini, disastri e rinascite
di un mondo in cui ci sia un posto dignitoso e fraterno per tutti, come il Presepe lo è per il figlio di Dio e per l’asino e il bue, per i Magi e per i pastori, una varietà che salva le peculiarità e le unisce in un coro.
Naturalmente il giovane prefatore e l’anziano Papa sanno che nella vita e nella Storia c’è anche un Male che appare assoluto; che nella Commedia dantesca c’è pure l’inferno, che il peccato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato, come ha detto Cristo stesso, il quale ha pure aggiunto che scaccerà come maledetti coloro che avranno negato un sorso d’acqua a qualcuno che pativa la sete. Dinanzi a questo, un Papa non la sa più lunga di chiunque altro e pochi pontefici come l’attuale se ne sono resi conto.
La bontà evangelica non è bonomia pacioccona. Papa Francesco è inviso a molte forze politiche perché vuol dare acqua agli assetati ed è contemporaneamente ben consapevole di quanto ciò sia materialmente difficile. Conosce il Vangelo, che esorta a essere semplici come colombe e astuti come serpenti; l’ironia benevola e sanguigna che c’è talora sul suo volto — in triestino si direbbe remenela, un’attitudine a prendere bonariamente in giro — è una bella impronta cristiana. È comprensibile che alcuni lo detestino per ciò che dice. Ma non è lecito, è penosamente falso e vile che lo accusino di trascurare la tradizione e di non difendere la vita e i suoi valori. Si fa finta di non sapere che Francesco ha definito, con chiarezza, l’aborto quale assassinio tramite sicario. Mi sembra siano parole chiare a salvaguardia dell’esistenza di un individuo in tutte le sue fasi, iniziali e finali, deboli e gagliarde.
Ma la «cattolicità» di Papa Bergoglio è la totalità della vita con le sue avventure, le sue cadute, le sue gioie, i suoi dolorosi errori. I giochi dell’infanzia, le passioni innocenti o colpevoli, la felicità che ci avvolge come un vento, spesso dolorosa, talora illecita perché causa l’infelicità di altri ma pur sempre felicità anche se drammatica. Accendi la luce nei sensi, dice il più grande inno cristiano, il Veni Creator Spiritus di Rabano Mauro, infondi nei cuori l’amore. Sensi che talora spengono e altre volte accendono questa luce, cuori effimeri e mortali, eterni da qualche altra parte. Anni fa Bergoglio sceglieva quale epigrafe di un suo dotto studio sugli Esercizi Spirituali di Sant’ignazio due versi di una canzone delle montagne dei suoi avi, Il testamento del Capitano, il cui corpo viene spartito fra le persone e i luoghi che lo hanno amato «…l’ultimo pezzo alle montagne/ che lo fioriscano di rose e fior».
Buon Natale.