Corriere della Sera

Storia di Modou, i mondi lontani a due passi da noi

Un trasloco di libri con l’aiuto di un ragazzo del Gambia Generosità senza calcoli e ricordi di una famiglia che non c’è più

- Di Antonio Scurati

«Mandingo!». Io sono in cima a una scala con dei libri in mano. Modou, che me li estrae da uno scatolone, è inginocchi­ato a terra. Eppure, in questo momento, lui è in alto e io in basso.

L’SEGUE DALLA PRIMA inestirpab­ile fierezza delle radici con cui pronuncia quella parola — Mandingo — lo eleva. Per quanto bassa possa essere la sua attuale condizione, l’araldica di padri ignoti e scomparsi lo anima di giusto orgoglio. Io mi sono limitato a chiedere che lingua si parli nel suo Paese d’origine, il Gambia. Eppure, per Modou, umile uomo di fatica, quella semplice domanda è valsa un riconoscim­ento onorifico. Allora, io inizio a nominargli gli scrittori centroafri­cani presenti nella mia libreria: Senghor, Achebe, Soyinka... Per ognuno di quei nomi, lo sguardo di Modou s’illumina, il sorriso si allarga: li conosce tutti. Da quel momento in avanti, il suo lavoro, già coscienzio­so e accurato, diventa addirittur­a meticoloso. Le sue grandi mani sembrano accarezzar­e ogni singolo libro prima di riporlo sullo scaffale.

Ho incontrato Modou (il nome è fittizio) in occasione del trasloco del mio studio. Se ne è occupato insieme a Mario (chiamiamol­o così). Modou, sorriso smagliante, originario dell’africa occidental­e, è alto, robusto, fiero nel portamento ma gentile nei modi, serafico, mussulmano osservante, giovane e nero come l’ebano; Mario, invece, milanese nato in via Gola, storica sacca di malavita, è minuto, nervoso, magrissimo, cattolico senza Dio, un po’ curvo come chi si senta perennemen­te minacciato, non più giovane, bianco e con un passato di rapinatore di banche. Eppure, lavorando di buona lena fianco a fianco, Modou e Mario mi hanno inscatolat­o trent’anni di libri in mezza giornata.

Sono entrambi alle dipendenze di Loris (altro nome fittizio), un ex delinquent­e redento grazie a una cooperativ­a di sgomberi che da decenni — con discrezion­e e senza aiuti pubblici — in collaboraz­ione con il carcere di Opera, ha reinserito nella società centinaia di detenuti (si chiama Di Mano In Mano e ora gestisce bellissimi negozi di vintage). Loris, nato a Mesagne (culla della Sacra Corona Unita), ha vissuto tra la strada, il riformator­io e il carcere per metà della sua vita («Che facevi Loris?»; «Truffe, clonazioni, un po’ di tutto, quel che c’era da fare»). Nella seconda metà della sua esistenza, però, Loris ha deciso di riscattare la prima. È riuscito ad avviare una sua piccola ditta di traslochi e, assumendo ex-detenuti come lui, sta ampiamente ripagando il dono che ha ricevuto. Il cellulare infilato dentro il casco da motociclis­ta, il ventre prominente sotto la tuta da ginnastica, rigorosame­nte del Milan, Loris organizza con slancio il duro e onesto lavoro dei suoi «ragazzi» come un tempo organizzò le loro truffe. Magari fanno un po’ di caciara ma di una cosa puoi star certo: Loris e la sua banda, anche quando hanno espletato tutte le mansioni previste dal contratto, non si tirano certo indietro. Ti aiutano finché non è tutto a posto, anche al di là dei loro obblighi, finché sentono di aver fatto le cose per bene, senza risparmiar­si e senza addebitart­i gli extra. Mettono nel lavoro quella generosità priva di calcoli di cui sono capaci gli uomini che hanno condotto vite dissipate.

Terminato il lavoro, si va a pranzo insieme. La curiosità mi morde. Prendo Loris in disparte.

«Scusa Loris... ma cosa ha combinato Modou?».

«Modou?!», esclama lui come rinculando. «Assolutame­nte niente! Modou non beve, non fuma, non va a donne perché fedele alla sua promessa sposa e prega secondo i precetti. Ovunque si trovi, s’inginocchi­a anche in mezzo ai calcinacci e prega. Avessimo noi i suoi valori morali!».

Abbozzo un sorriso cautelativ­o: «Ma, allora, perché sta in mezzo a voi farabutti?».

Loris s’incupisce, e non a causa del mio bonario sfottò. Nel suo tipico borbottio ai confini dell’incomprens­ibile, lo sento dire: «Quando era bambino, gli hanno sterminato la famiglia davanti agli occhi». Poi, dopo una breve pausa di costernazi­one, aggiunge: «A colpi di piccone».

Dopo aver saputo, mentre osservo quel ragazzone gioviale, serio e laborioso divorare il suo piatto di maccheroni, mi maledico per la mia arrogante stupidità: ho creduto che bastasse sciorinare qualche nome di scrittore per saltare l’abisso che separa la pigra esistenza di noi privilegia­ti dall’odissea dei dannati della terra. Ogni giorno, mi dico, in questa modernità porosa, dentro la quale convivono epoche lontane tra loro secoli e millenni, sfioriamo, con noncuranza o dispetto, esseri umani che hanno vissuto sulla propria pelle esperienze cui noi non riusciremm­o nemmeno ad assistere se proiettate su uno schermo cinematogr­afico.

Con discrezion­e, mi sono informato. Modou dorme da anni in una camerata di un centro di accoglienz­a e, sebbene lavori da anni per Loris con regolare contratto, non gli è concesso un futuro in Italia perché il ragazzo cui hanno sterminato la famiglia davanti agli occhi a colpi di piccone è ancora in attesa di permesso di soggiorno per ragioni umanitarie. Non solo: c’è un alto rischio che il nostro misericord­ioso Paese non glie lo conceda.

Impossibil­e, direte voi. E, invece, purtroppo, è addirittur­a probabile. Per due ragioni, entrambe assurde. La prima è che un giudice ha ritenuto dubbia la sua testimonia­nza allorché, richiesto di rivivere la scena del suo trauma infantile, Modou ha restituito lo sguardo del bambino, e quello dei suo codici culturali, narrando di «demoni che aggrediron­o il villaggio uscendo dalla foresta armati di machete e di picconi». La seconda è che Yahya Jammeh, il dittatore che ordinò i massacri in Gambia, è stato finalmente deposto. E tanto basta perché, come è accaduto sistematic­amente negli ultimi mesi con i rifugiati del Gambia, un giudice possa, ritenendo che sia per lui cessato ogni pericolo, rispedire a casa un ragazzo che non ha più casa, negandogli quella vita che sta laboriosam­ente, coraggiosa­mente cercando di ricostruir­si in mezzo a una turba di fantasmi di padri, madri e fratelli massacrati.

La celebre Christmas Carol di Dickens comincia con un morto («Marley era morto, tanto per cominciare»). Anche questo nostro piccolo racconto di Natale comincia con la morte. Modou, però, è vivo. Vivo della vita flebile ma tenace dei superstiti, della promessa struggente di un mondo prossimo alla propria apocalisse. Ora sta a noi mantenere quella promessa.

Gli nomino gli autori centroafri­cani presenti nella mia libreria: Senghor, Achebe, Soyinka... Per ognuno di loro il suo sguardo s’illumina, il sorriso si allarga: li conosce tutti

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