Storia di Modou, i mondi lontani a due passi da noi
Un trasloco di libri con l’aiuto di un ragazzo del Gambia Generosità senza calcoli e ricordi di una famiglia che non c’è più
«Mandingo!». Io sono in cima a una scala con dei libri in mano. Modou, che me li estrae da uno scatolone, è inginocchiato a terra. Eppure, in questo momento, lui è in alto e io in basso.
L’SEGUE DALLA PRIMA inestirpabile fierezza delle radici con cui pronuncia quella parola — Mandingo — lo eleva. Per quanto bassa possa essere la sua attuale condizione, l’araldica di padri ignoti e scomparsi lo anima di giusto orgoglio. Io mi sono limitato a chiedere che lingua si parli nel suo Paese d’origine, il Gambia. Eppure, per Modou, umile uomo di fatica, quella semplice domanda è valsa un riconoscimento onorifico. Allora, io inizio a nominargli gli scrittori centroafricani presenti nella mia libreria: Senghor, Achebe, Soyinka... Per ognuno di quei nomi, lo sguardo di Modou s’illumina, il sorriso si allarga: li conosce tutti. Da quel momento in avanti, il suo lavoro, già coscienzioso e accurato, diventa addirittura meticoloso. Le sue grandi mani sembrano accarezzare ogni singolo libro prima di riporlo sullo scaffale.
Ho incontrato Modou (il nome è fittizio) in occasione del trasloco del mio studio. Se ne è occupato insieme a Mario (chiamiamolo così). Modou, sorriso smagliante, originario dell’africa occidentale, è alto, robusto, fiero nel portamento ma gentile nei modi, serafico, mussulmano osservante, giovane e nero come l’ebano; Mario, invece, milanese nato in via Gola, storica sacca di malavita, è minuto, nervoso, magrissimo, cattolico senza Dio, un po’ curvo come chi si senta perennemente minacciato, non più giovane, bianco e con un passato di rapinatore di banche. Eppure, lavorando di buona lena fianco a fianco, Modou e Mario mi hanno inscatolato trent’anni di libri in mezza giornata.
Sono entrambi alle dipendenze di Loris (altro nome fittizio), un ex delinquente redento grazie a una cooperativa di sgomberi che da decenni — con discrezione e senza aiuti pubblici — in collaborazione con il carcere di Opera, ha reinserito nella società centinaia di detenuti (si chiama Di Mano In Mano e ora gestisce bellissimi negozi di vintage). Loris, nato a Mesagne (culla della Sacra Corona Unita), ha vissuto tra la strada, il riformatorio e il carcere per metà della sua vita («Che facevi Loris?»; «Truffe, clonazioni, un po’ di tutto, quel che c’era da fare»). Nella seconda metà della sua esistenza, però, Loris ha deciso di riscattare la prima. È riuscito ad avviare una sua piccola ditta di traslochi e, assumendo ex-detenuti come lui, sta ampiamente ripagando il dono che ha ricevuto. Il cellulare infilato dentro il casco da motociclista, il ventre prominente sotto la tuta da ginnastica, rigorosamente del Milan, Loris organizza con slancio il duro e onesto lavoro dei suoi «ragazzi» come un tempo organizzò le loro truffe. Magari fanno un po’ di caciara ma di una cosa puoi star certo: Loris e la sua banda, anche quando hanno espletato tutte le mansioni previste dal contratto, non si tirano certo indietro. Ti aiutano finché non è tutto a posto, anche al di là dei loro obblighi, finché sentono di aver fatto le cose per bene, senza risparmiarsi e senza addebitarti gli extra. Mettono nel lavoro quella generosità priva di calcoli di cui sono capaci gli uomini che hanno condotto vite dissipate.
Terminato il lavoro, si va a pranzo insieme. La curiosità mi morde. Prendo Loris in disparte.
«Scusa Loris... ma cosa ha combinato Modou?».
«Modou?!», esclama lui come rinculando. «Assolutamente niente! Modou non beve, non fuma, non va a donne perché fedele alla sua promessa sposa e prega secondo i precetti. Ovunque si trovi, s’inginocchia anche in mezzo ai calcinacci e prega. Avessimo noi i suoi valori morali!».
Abbozzo un sorriso cautelativo: «Ma, allora, perché sta in mezzo a voi farabutti?».
Loris s’incupisce, e non a causa del mio bonario sfottò. Nel suo tipico borbottio ai confini dell’incomprensibile, lo sento dire: «Quando era bambino, gli hanno sterminato la famiglia davanti agli occhi». Poi, dopo una breve pausa di costernazione, aggiunge: «A colpi di piccone».
Dopo aver saputo, mentre osservo quel ragazzone gioviale, serio e laborioso divorare il suo piatto di maccheroni, mi maledico per la mia arrogante stupidità: ho creduto che bastasse sciorinare qualche nome di scrittore per saltare l’abisso che separa la pigra esistenza di noi privilegiati dall’odissea dei dannati della terra. Ogni giorno, mi dico, in questa modernità porosa, dentro la quale convivono epoche lontane tra loro secoli e millenni, sfioriamo, con noncuranza o dispetto, esseri umani che hanno vissuto sulla propria pelle esperienze cui noi non riusciremmo nemmeno ad assistere se proiettate su uno schermo cinematografico.
Con discrezione, mi sono informato. Modou dorme da anni in una camerata di un centro di accoglienza e, sebbene lavori da anni per Loris con regolare contratto, non gli è concesso un futuro in Italia perché il ragazzo cui hanno sterminato la famiglia davanti agli occhi a colpi di piccone è ancora in attesa di permesso di soggiorno per ragioni umanitarie. Non solo: c’è un alto rischio che il nostro misericordioso Paese non glie lo conceda.
Impossibile, direte voi. E, invece, purtroppo, è addirittura probabile. Per due ragioni, entrambe assurde. La prima è che un giudice ha ritenuto dubbia la sua testimonianza allorché, richiesto di rivivere la scena del suo trauma infantile, Modou ha restituito lo sguardo del bambino, e quello dei suo codici culturali, narrando di «demoni che aggredirono il villaggio uscendo dalla foresta armati di machete e di picconi». La seconda è che Yahya Jammeh, il dittatore che ordinò i massacri in Gambia, è stato finalmente deposto. E tanto basta perché, come è accaduto sistematicamente negli ultimi mesi con i rifugiati del Gambia, un giudice possa, ritenendo che sia per lui cessato ogni pericolo, rispedire a casa un ragazzo che non ha più casa, negandogli quella vita che sta laboriosamente, coraggiosamente cercando di ricostruirsi in mezzo a una turba di fantasmi di padri, madri e fratelli massacrati.
La celebre Christmas Carol di Dickens comincia con un morto («Marley era morto, tanto per cominciare»). Anche questo nostro piccolo racconto di Natale comincia con la morte. Modou, però, è vivo. Vivo della vita flebile ma tenace dei superstiti, della promessa struggente di un mondo prossimo alla propria apocalisse. Ora sta a noi mantenere quella promessa.
Gli nomino gli autori centroafricani presenti nella mia libreria: Senghor, Achebe, Soyinka... Per ognuno di loro il suo sguardo s’illumina, il sorriso si allarga: li conosce tutti