Dj Fabo, la vittoria e il pianto di Cappato
Era accusato di aiuto al suicidio. I giudici: «Il fatto non sussiste». In aula ha appreso della morte della madre
Imputato, pm, difensori, Corte costituzionale e solo per ultima la Corte d’assise hanno tutti fatto ciò che giudicavano fosse giusto fare, solo il Parlamento per più di un anno non ha trovato il tempo, e forse neanche il coraggio, per prendere una decisione di fronte a chi, nel pieno delle proprie facoltà mentali, chiede e ottiene, perché non può fare da solo, di essere aiutato a morire per liberarsi da una condizione che non ritiene dignitosa. Ieri i giudici d’assise di Milano hanno assolto l’esponente radicale Marco Cappato dall’accusa di aver agevolato il suicidio di Dj Fabo accogliendo, dopo la storica sentenza della Consulta, le richieste di pm e difensori.
L’assoluzione arriva al termine di un lungo, sofferto e a tratti struggente percorso umano e processuale cominciato
Sono passati quarant’anni, ci sono state inchieste e processi, ma il mistero resta. Dell’omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione siciliana assassinato a Palermo il 6 gennaio 1980, mancano i nomi dei killer e ci si continua a interrogare sul movente. Per la morte del leader democristiano che stava portando avanti il rinnovamento nel partito e sull’isola, fratello dell’attuale capo dello Stato, sono stati condannati i componenti della Cupola come mandanti, assolti due presunti sicari, mai individuati altri possibili colpevoli.
Il 3 novembre 1988 Giovanni Falcone, all’epoca giudice dopo che nel 2017 Fabiano Antoniani, tetraplegico, cieco e in preda a dolori atroci continui, decidesse a 45 anni di morire in una clinica svizzera dove era stato accompagnato da Cappato, che si batte da tempo per l’introduzione anche in Italia della possibilità piena di poter decidere sul proprio fine vita.
A febbraio 2018 la Corte d’assise, presidente Ilio Mannucci Pacini, accolse la richiesta dei pm Sara Arduini e Tiziana Siciliano di sollevare la questione di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale nella parte in cui punisce anche chi aiuta un suicida ad «esercitare il suo diritto alla dignità». La Consulta, accogliendo il ricorso, aveva dato un anno al Parlamento per affrontare la questione modificando la norma, ma il termine era scaduto con un nulla di fatto costringendo i giudici a dichiararne la contrarietà alla Carta.
Il processo è ripreso in Assise di Milano dove i pm hanno chiesto ancora l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» dopo aver ringraziato la Consulta per aver «tracciato un percorso con grande chiarezza», ha detto il procuratore aggiunto Siciliano.
La Corte costituzionale, ha precisato Siciliano, ha previsto «una griglia rigorosa di condizioni» che rendono legittimo l’aiuto al suicidio: patologia irreversibile; grave sofferenza fisica e psicologica; dipendenza da trattamenti medici vitali; capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli. Paletti che, secondo i pm, erano pienamente presenti fino alla fine in Dj Fabo che «ha combattuto contro la malattia ed autonomamente ha determinato di terminare la sua vita».
Richiesta di assoluzione anche da parte degli avvocati Masssimo Rossi e Francesco Di Paola, legali di Cappato, il quale ha appreso in aula al telefono della morte della madre malata da tempo. Commosso per il lutto improvviso, prima di lasciare il palazzo di Giustizia, ha chiesto di essere assolto «per il diritto di Fabiano di ricevere ciò che chiedeva». Dalla morte di Dj Fabo, ha rivelato, che alcune decine di persone si sono rivolte a lui e alla associazione Luca Coscioni di cui fa parte, per essere aiutate «ad andare a morire in Svizzera» senza che le istituzioni italiane, che ne erano a conoscenza, abbiano fatto nulla per contrastare la loro volontà. sivi, fino all’ultima inchiesta condotta dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e dall’ex sostituto Roberto Tartaglia, oggi consulente dell’antimafia che sta curando l’apertura degli archivi. Tracce utili sarebbero potute venire dai reperti che quarant’anni fa non fornirono indicazioni, ma con le tecnologie attuali potrebbero offrire nuovi elementi. I proiettili calibro 38 che uccisero Mattarella sembravano sparati dalla stessa pistola che sei mesi dopo, il 23 giugno 1980, abbatté il magistrato romano Mario Amato (attentato rivendicato dai Nar, commesso proprio da Cavallini). Ma il confronto di laboratorio che avrebbe potuto dare la certezza è risultato impossibile per il deperimento dei reperti. E un guanto lasciato nella macchina utilizzata dai killer per la fuga, con rivestimento interno in pile, dal quale oggi si potrebbe estrarre il Dna di chi lo indossava, non si riesce a trovare. I pm l’hanno cercato in ogni angolo del palazzo di Giustizia di Palermo e degli uffici di polizia e carabinieri, senza successo, e continuano a cercarlo altrove. Senza arrendersi a una scomparsa che alimenterebbe il mistero su quell’omicidio politico-mafioso.