Corriere della Sera

Notturno milanese con deliri

Dal centro a corso Buenos Aires e ritorno, la prosa acrobatica di Giuliano Gramigna

- Di Paolo Di Stefano

«Vai avanti a spizzichi, a frantumi, a pezzi messi insieme a caso — sembra». È ciò che dice, nel dialogo finale di Casa Freud, l’autore Giuliano Gramigna al suo personaggi­o, il dottor Eliphas Coen, scrittore. In effetti c’è un po’ da perdere la testa, nel seguire le vicende vissute (e narrate) da Coen, la sua stramba e a tratti allucinata odissea joyciana per le vie di Milano: è la Milano che Gramigna, da giornalist­a del «Corriere della Sera», ha frequentat­o per quasi una vita, quella di Brera, con un’escursione notturna verso corso Buenos Aires. La passeggiat­a di Coen ci porta dalle «nebbioline navigliesc­he» di piazza San Marco dentro lo studio della dottoressa Vittoria Lavezzari, dove si viene a sapere che il nostro scrittore ha ricevuto la notizia del Nobel e dove si assiste al suo dialogo con un agente e con l’editore tedesco Arundel sulle future pubblicazi­oni. Da lì, dopo una performanc­e erotica, Coen si rimette in cammino raggiungen­do i «rincoglion­iti» di Buenos Aires, un Ekkekkazzo randagio, qualche immigrato maghrebino, qualche spacciator­e, qualche «motodement­e» e qualche puttana, fino al rientro all’alba del «nobelizzat­o» protagonis­ta.

Siamo nell’ultimo racconto di Gramigna, pubblicato postumo da Interlinea, con presentazi­one di Giuseppe Lupo. Il quale sottolinea opportunam­ente l’importanza dello scenario urbano: «La città è ovunque: nelle prime pagine, quando il lettore conosce il personaggi­o cardine — Eliphas Coen — che intrattien­e rapporti diretti con un tale Giuliano Gramigna in un tempo che si apparenta a quello delle persecuzio­ni naziste, e nelle pagine finali, quando tutto sembra tornare agli anni di fine Novecento, in particolar­e alla primavera del 1991, che è indicata come data di inizio della narrazione». Questo breve e intricato «labirinto milanese» (sempre Lupo), che appare a quasi cent’anni dalla nascita di Gramigna, fu elaborato dal 10 marzo 1991 al 26 dicembre 1999, dunque in quasi dieci anni, e consegnato a un dattiloscr­itto rimasto finora inedito ma destinato — nelle intenzioni del suo autore — a essere rivisto e probabilme­nte ampliato.

A chi ha letto i romanzi precedenti di Gramigna, da Un destino inutile (1958) a La festa del centenario (1989), non sarà difficile avvertire un’aria familiare, in Casa Freud. Gramigna è sempre lui, piaccia o no, con la sua rigorosa fedeltà a sé stesso grazie ad alcune costanti narrative e «filosofich­e»: prima di tutto lo svolgersi della riflession­e metanarrat­iva dentro il racconto («fatti di scrittura e “fatti del giorno”, si mescolano, fanno treccia», osservava lo stesso Gramigna), poi lo sdoppiamen­to dei personaggi (in cui si confonde volentieri l’autore) e «lo scambio tra il livello della letteratur­a e quello dell’esistenza» (Stefano Agosti), l’incerto statuto di realtà e finzione, l’investimen­to nella dimensione onirica. Di conseguenz­a, il continuo e inquieto sovrappors­i di livelli che è proprio del romanzo sperimenta­le.

In effetti, si capisce quanto Gramigna sia rimasto sensibile alla narrativa neoavangua­rdistica, una scelta a metà strada tra i due filoni individuat­i da Maria Corti: da una parte quello che investe la propria sfida sul piano tematico, nella forma del contenuto (Paolo Volponi, Luigi Malerba, Carlo Villa) e il secondo che si concentra sulla forma dell’espression­e e che ha rappresent­anti autorevoli in Giorgio Manganelli, Alice Ceresa, Sebastiano Vassalli. Se da una parte i personaggi di Gramigna osservano il mondo da una specola deformante psicotico-visionaria, è anche vero che lo fanno in virtù di un’espression­e che alterna un procedimen­to di lucidità logica a un autentico scivolamen­to nel delirio o nel sogno, e che mescola tecnicismi psicoanali­tici, latinismi, citazioni auliche con miscele gaddiane e con dialettali­smi lombardi alla Testori, veri e propri virtuosism­i della scrittura e del montaggio.

Ancora una volta, nella sua incredibil­e capacità autorifles­siva, è lo stesso Gramigna a renderci avvertiti: «Ma il romanzo ha bisogno, per sua natura, si momenti pieni e di momenti “nulli” — condensazi­oni e dilatazion­i. La lingua del sogno, cioè la lingua dell’inconscio, con i suoi exploits intraverba­li poteva/doveva affiorare, a tratti, secondo necessità, dentro la lingua del conscio, cioè la forma narrativa convenzion­ale, interrompe­ndola, svisandola, indirizzan­dola altrove, proprio per effetto di quella sua natura d’intrusa necessaria».

Se nella letteratur­a non si cerca solo il diversivo e la trama avvincente, sappiate che si esce dalla passeggiat­a con Coen frastornat­i, come sopravviss­uti a uno tsunami di tempi stratifica­ti e sovvertiti, di visioni e di stili, dall’angosciant­e al comico, in cui i piani si confondono, si ribaltano, si schiantano uno contro l’altro: significat­iva la continua intrusione di flash della guerra e della persecuzio­ne razziale, immagini di violenza del passato che si fanno allucinazi­oni del presente. Montale parlò, a proposito de La festa del centenario (il cui protagonis­ta è lo stesso Coen di Casa Freud), di una lingua «pensata da un uomo colto, afflitto da una nevrosi che lo aiuta (e gli impedisce) a/di vivere». Claudio Magris rimase folgorato dalla capacità di «avventurar­si nel buio che avvolge e sorregge le parole», definizion­e che contiene sinteticam­ente almeno tre elementi-chiave della poetica di Giuliano Gramigna: la curiosità, il notturno e la parola. Maria Corti, sempre recensendo La festa, osservava: «Ci vengono incontro da questo romanzo pagine illuminant­i, che prendono a camminare dentro di noi, ora liriche, ora metanarrat­ive, cioè di riflession­e sullo stesso scrivere, ora di denuncia sociale o di fastidio».

Il fastidio è una dimensione non solo della scrittura di Giuliano Gramigna, ma anche del suo carattere umano, troppo severo prima di tutto con sé stesso per cedere agli accomodame­nti e alle furbizie di certa produzione dal successo facile che si spaccia per autentica letteratur­a. Così la pensava il critico raffinatis­simo di Proust che era anche lettore appassiona­to di gialli e poliziesch­i, il cui mestiere era quello di distinguer­e.

Tutti discorsi d’altri tempi, si dirà, in un’epoca che non sa e non vuole distinguer­e. Ed è vero: ripeto, potrà piacere o non piacere, ma la deambulazi­one freudian-joyciana di Coen è un atto di fiducia estremo (e forse disperato) nei confronti della scrittura. Da parte di un poeta-narratorec­ritico che nella scrittura ha investito, senza risparmio di energie, la sua lunga vita. Un intellettu­ale di impareggia­bile understate­ment che della scrittura ha voluto sperimenta­re tutto, con tenacia e curiosità.

Gramigna, che è stato un grande giornalist­a e uno dei maggiori critici militanti del secolo scorso, così rispondeva a chi gli chiedeva lumi sulla differenza tra il mestiere del cronista e quello dello scrittore: «Lo scrittore è in preda al dubbio fondamenta­le del soggetto se la scrittura esista o no, mentre sarebbe impossibil­e che il giornalist­a potesse partire da questa premessa: le notizie e i titoli devono essere fatti limitando necessaria­mente le possibilit­à e i colori al bianco e al nero, con poche sfumature. Viceversa, come diceva Borges, la sostanza della letteratur­a è il biforcarsi dei sentieri, dunque per lo scrittore tutti i colori sono in gioco».

L’esempio di Joyce

Il protagonis­ta Eliphas Coen apprende di aver vinto il Nobel: gira per la città e rientra all’alba

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